lunedì 28 ottobre 2013

DISCRIMINAZIONE TERRITORIALE: IPNOSI PER L'INETTO SUDDITO


di Gian Maria Campedelli (per seguire Parterre su Facebook clicca qui)


Di romantico, in tutto questo polverone, c'è ben poco. Dove vogliono arrivare, chi ha deciso che il calcio in Italia deve morire? Le note suonano gravi, niente armonia, l'amarezza ristagna, la rabbia si annida sotto la pelle di chi vive ancora per difendere passione e appartenenza.

venerdì 25 ottobre 2013

LAMPEDUSA: STORIA D'UN CALCIO ISOLATO.



 di Gianmarco Pacione

Onde urlanti, inermi. Delle barche muovono insicure, equilibriste nel buio sconosciuto. Migranti attonite, pescatrici di speranze.

Il faro dalla costa illumina scanditamente volti senza nome. Una stanca imbarcazione segue con gli occhi, però, altre luci artificiali. Contornano attente una terra dalle venature marroni, connubio di carnagioni mescolato con manciate di sabbia dorata. 

Din. Suona la traversa. 

Azione di gioco d'una gara casalinga del Lampedusa
Al “Grazio Arena” si stanno allenando i ragazzi del Lampedusa Calcio, come ogni sera. 

Calcio sperduto, calcio isolato. Sognatori danzanti nell’opaco anonimato, volteggianti su logori tacchetti. La loro GSD è di nuovo viva. Appena iscritta nell’ultima serie esistente, dopo mesi di puro calvario. La rinuncia alla prima categoria era stata un’inevitabile conseguenza: troppo alte le spese, troppo elevati i costi per spostarsi in Sicilia più di dieci volte all’anno. 

Sacrifici e sudore. L’obbligo di sveglia all’alba della domenica, l’aereo fino a Palermo e poi il pullman fino a Calatafimi, Capaci... Passione irrazionale, tutta lampedusana. Poi le beffe, continue, di molte, troppe società che nemmeno pensavano e penseranno a presenziare oltre mare all’incontro domenicale. Vittorie a tavolino, sconfitte personali inaccettabili, mortificanti. 

Le righe bianche risaltano, quasi fosforescenti, sulla placca africana. Le recinzioni sono traballanti. Implorano aiuto, tra smorfie atroci, dai tempi del passaggio papale e dal loro necessario abbattimento. Rendono il campo inagibile per quest'anno, obbligano il Lampedusa a giocare le gare casalinghe a Mondello.

Una bestemmia sibila nel cielo nuvoloso. Il pallone impatta, sordo, contro il legno. Allieta anime, gioca a torello. Lo fa tra le barche che popolano il cimitero, sorto sommessamente a lato del campo. Defunte macchine di morte abbandonate, ripudiate, lasciate marcire quasi per disprezzo. 
Sullo sfondo uno scorcio del cimitero delle barche

Un gruppetto di bambini sfida il cordone rosso di pericolo. Occhi brillanti, quelli di pochi eletti alla vista di una sfera rovinata. Il futbol respira a grandi polmoni la brezza mediterranea. 

L’impolverato “Grazio Arena” scambia uno sguardo con quella che sarà la sua nuova vicina, barcollante tra le onde. 

Gli occhi che ricambiano sono quelli di scuri figuranti. Presto, bisognosi d'un futuro, d'un lavoro, d'una qualche certezza, si troveranno a lasciare impronte nude, a dipingere le suole di rosso, a soddisfare quella biglia fatata che già conoscevano in terre lontane. Non curanti del presente, del passato, del futuro, della vita, della morte.

Un po' come i ragazzi in campo ora, vestiti a festa per il più affascinante rito pagano. Un po' come quest'isola lontanamente vicina a tutto. Un po' come questo calcio naif: ostacolato, emarginato, poeticamente pulsante, testardamente immortale.



sabato 5 ottobre 2013

PROIETTILI DI CUOIO. RITRATTO DI CALCIO SIRIANO.






di Gianmarco Pacione
Scorcio delle rovine di Damasco durante una partitella tra bambini
Poc-poc-poc. Le macerie respirano, vibrano. Bashar è seduto, solo. Lancia scanditamente parti di soffitto, lo capisce dal colore dell’intonaco.

La polvere offusca la vista, crea il peggiore dei miraggi. 

Centro del distretto di al-Mezzeh, Damasco, Siria. I colpi vicini non straniscono Bashar. Ha poco più di dodici anni, abbandonato ai suoi pensieri come ai cenci che veste, per inerzia, da mesi ormai.

Tre ragazzini siriani palleggiano
Guerra civile, guerra tremenda. La distesa di detriti è una compatta, funerea coperta per Haytam e Samir. Erano i suoi due migliori amici. Erano. 

Sirene, urla, tutto lontanamente vicino.

Bashar è scalzo, poggia attivo i piedi su una vecchia pelota, è l’unico ricordo rimasto di Haytam e Samir. È rotolata fuori quasi per caso, quasi per volontà altrui, dal grottesco tonfo di tonnellate di cemento.

Gli sporchi piedi continuano ad accarezzare il delicato cuoio.

Al-Mezzeh è una zona caldissima, proteste anti-governative alternate a prese di forza dell’esercito, attentati all’aeroporto militare, stragi alla moschea.

Immagine di Nuri Ibish
Il padre del dodicenne è un ribelle, la madre si limita a piangere. Sente le sue lacrime anche in questo istante Bashar, le sente sulla pelle, sulla fronte, sta guardando in alto. “Mamma non piangere, fammi stare qui a giocare ancora un po’ con i miei amici!”. La pioggia inizia a scendere commossa dal cielo di Damasco.

Corre Bashar tra le vie marchiate dai suoi doppi passi, dai sorrisi di bambini dagli occhi colmi di futbol e sparatorie, di vita e morte. Marchi delebili.

La palla si ferma, controllata, docile, sotto un muro sporgente, pericolante. Una targa, decrepita, recita sicura: “Nel 1920, qui, è nato il calcio in Siria”.

Bashar conosce bene la storia di quella partita. Per anni si è affacciato dal balcone immaginando l’epica scena, l’odore spasmodico ed eccitante della ricerca del gol, l’affannoso ululare di tifosi novizi ma pronti. La immaginava dipingendo immagini tra le parole di suo padre; quella era l’unica storia che avrebbe ascoltato per ore, per anni. “Se tutti i politici fossero come Nuri Ibish, la nostra Siria sarebbe un grande Paese.”, si sentiva sempre dire.

Nuri Ibish, la sua foto appena sotto la targa, ingiallita, umilmente fiera in questo deserto umano. Bashar imita la posa, marionetta in un teatro deserto, carica il petto superbo.

Ricco proprietario terriero, politico affermato della prima metà del ‘900, ministro del Gabinetto, pioniere unico del calcio siriano. Apprese regole, fascino e trascendentale armonia durante un viaggio nell’Inghilterra della Grande Guerra. Immediatamente corse a Damasco. Nel 1919 convinse le truppe inglesi ad allenare i suoi compaesani: non alla vita da trincea o a come centrare il bersaglio con maggiore costanza, semplicemente alla magica arte del football.

Il ministro Ibish, secondo da sinistra
Nel 1920 la prima partita, in quello spiazzo su cui ora sta pellegrinando un bambino assente; la vittoria degli artigiani di casa sulle truppe inglesi per 4 a 2, tra migliaia di siriani freddati calorosamente da un Cupido con la sciarpa al collo, con un due aste issato, con una palla impazzita tra piedi burberi ed incoscienti.



Una città unita, uno Stato innamorato irreversibilmente. 

Un re, Faysal I, talmente fiero dei giocatori siriani, da regalare ad ognuno di essi un orologio d’oro.

Luccichii sotto un maglione, distante pochi passi da Bashar. Ancora i piedi sporchi a divertire la pelota, a sollevare l’anima da questa nebbia irregolarmente illusoria, candida e compatta, da quest’etereo terrore mai domo, ammorbante, ormai banale.

Bashar muove il maglione di qualche centimetro, il luccichio aumenta, trascinando con sé, di forza, il battito del cuore. Un orologio d’oro del re Faysal, magari proprio quello di Nuri Ibish. 
Un ribelle supera armato un prato verde




Un proiettile. Un crudo, freddo, ghignante proiettile cullato dalla lana grezza dello scuro maglione.
Bashar carica il destro, il piede spoglio, come tutto il resto. Colpisce la targa, unica luce in queste tenebre. Le rovine vacillano. Mette il proiettile in tasca, abbandona il cuoio nella fanghiglia agonizzante.

Ha scelto, combatterà al fianco di suo padre per Haytam, per Samir, per diventare un giorno come Nuri Ibish e riportare la pace nel suo distretto, nella sua città, nel suo Paese.

Poco distante, proprio dove quella maledetta autobomba ha portato via la sua amata madre, la sua sicura casa, il neo combattente osserva un gruppo di bambini: hanno appena ricominciato a correre ed emozionarsi palla al piede. 

Gli spari sibilano, fischietti non retribuiti, incriticabili.
 
Il cielo è sereno ora, il sole asciuga il volto rigato di Bashar, di tutta al-Mezzeh.

“Tranquilla mamma, al limite piangeremo insieme.”.