domenica 24 novembre 2013

TRA QUELLI CHE NON CE L'HANNO FATTA: IL DECLINO DI ADU

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook cliccate QUI)



Land of opportunity, la chiamano così. Ed in effetti la Storia ci insegna che gli Stati Uniti hanno rappresentato per milioni e milioni di persone lungo i secoli la terra adatta a costruire un  futuro luminoso, la terra delle rivincite, dei sogni che diventano realtà: lontana dalle logiche europee, la cultura statunitense, spesso additata come povera e materialista, si è fondata (anche) sull'ideale del self-made man, “l'uomo che si è fatto da sé”, colui che è riuscito a sfruttare il proprio ingegno, il proprio talento e le enormi risorse del Nuovo Mondo realizzando obiettivi e raggiungendo mete che, altrove, sarebbero apparse solo come nebbiose aspirazioni. Sono migliaia le testimonianze artistiche, letterarie, cinematografiche che ruotano attorno al mito americano ma, ahinoi romantici un po' sadici, quasi nessuno parla, invece, di chi fallisce clamorosamente. Di chi arriva ad un passo e poi crolla, di chi è vinto dal destino, da chi finisce dimenticato nell'ombra, assieme alla schiera di “quelli che non ce l'hanno fatta”. Fra le pagine non scritte che raccontano l'”Altra America” merita una menzione considerevole anche un ragazzo nato nell'1989 in Ghana, catapultato a otto anni a Rockville, Maryland, grazie ad una green card vinta dalla madre, uno di quelli che comunemente chiameremmo “enfant prodige”: il suo nome è Fredua Korateng Adu, meglio conosciuto come Freddy Adu, e questa è l'impietosa cronaca del suo sogno sbiadito.

giovedì 14 novembre 2013

UNA BOTTA E VIA. L'AMPLESSO DI MATTEINI.

 di Gianmarco Pacione
L'esultanza di Matteini ad Avellino

Se solo potessi tornare indietro.

La testa intontita, stupefatta, è quella d'un tifoso, d'un amante.

Se solo potessi tornare in quel Novembre del 2005, se solo potessi cancellare dalla mente quella strana sensazione. Innamorarsi è bello, bellissimo.

Pescaresi presenti ad Avellino per l'1-3
All'epoca ero ancora poco più che bambino, abbagliato da quei gradoni dipinti di bianco ed azzurro, da quella nord gigante, in costante movimento. Era tutta una favola, respiravo la prima cotta abbracciando una sciarpa, seguendo cori trascinanti, lanciandomi in mischie dolorose. Vivevo di fascinazione, alternando le più sensibili, dolci farfalle allo stomaco, a urla becere, ad insulti che traboccavano incontrollati.

Era lavoro duro, durissimo, idolatrare un Cammarata in stampelle, un Bonfiglio scomparso dai miei ricordi di quasi tredicenne (forse grazie a Dio), un Croce esaltante, stranamente troppo.

sabato 9 novembre 2013

QUANDO IL PESO DIVENTA LEGGERO. ODE A SODINHA.

di Gianmarco Pacione (clicca qui per seguirci su Facebook)

"Un artista è attratto da certi tipi di forme senza saperne il motivo.
Fernando Botero.

Felipe Diogo Monteiro Sodinha

Le mattonelle sporche. Il terriccio di sempre, forato crudelmente da tacchetti appena docciati. La distinta svolazzante sul tavolo, baciata dal Borghetti del nostro dirigente appassionato di videopoker. Si è attardato per pisciare fischiettando. "Dai su, devi solo diventare un po' più leggero.".

Ricordo impresso, fisso.

Sodinha in azione con le rondinelle
La mia prima partita senza fuorigioco: sostituito poco dopo l'inizio della ripresa. "Mangia meno pasta!", l'urlo freddo servito con il tè bollente. Ossimoro da spogliatoio. Parole che scivolano aride nel flusso puro della memoria.

Un salto dimensionale: la rovina di un impero florido, costruito su tap-in a pochi centimetri dalla linea, su rientri difensivi mai accennati. Il braccio su, il fischietto rude, il mio sogno concluso. "Sei un bomber di razza", dicevano: si, di razza dalle ossa grosse. Quella corsa da "pinguino", usata solo per esultare mitragliando alla Van der Meyde genitori scettici, d'un tratto era diventata una costrizione, un freno, un infortunio privo di volto e causa: rientravo senza attenuanti nella categoria dei "ciccioni", lo facevo da plurimedagliato esperto in riso alla pilota e gite a fast food di qualsiasi tipo.