lunedì 29 luglio 2013

PAUL McGREGOR: IL PRIMO CALCIATORE BRITPOP

di Gian Maria Campedelli (per seguirci sul Facebook, CLICCA QUI)



Sarà che siamo abituati, qui nel nostro Paese, a schiere di calciatori abbronzati e impomatati, pronti a fuggire a Formentera appena dopo l'ultimo fischio dell'ultima gara di campionato. Sarà che i modelli di milioni di giovani sono bamboccioni viziati che prendono a calci un pallone ma diventano veramente celebri per le loro apparizioni in discoteche, programmi televisivi di dubbio spessore e pagine di giornali patinati, mano nella mano con qualche divetta del (oramai compianto) tubo catodico. Sarà che in Italia, poi, la colonna sonora della carriera di un calciatore, dentro e fuori dal campo, dentro e fuori gli studi televisivi, prevede la peggior musica da discoteca adriatica, rozza e martellante, che dura una stagione e poi muore, come merita, soffocata nel dimenticatoio. Come loro: spesso e volentieri, durano una stagione, poi migrano, cambiano maglia, dove il tintinnio della moneta sonante è più squillante. Sarà per tutto questo, e sicuramente anche per altro, che ci incantiamo di fronte a storie come quella di Paul McGregor, uno che coi calciatori odierni e nostrani ha poco a che spartire.

McGregor agli inizi della sua breve
carriera da calciatore, in maglia
Nottingham Forest.

Paul nasce nel 1974 a Liverpool, una città che di pallone e musica ha vissuto e continua a vivere con orgoglio, con i confini dei due mondi che si mescolano e rendono la città viva, viva nell'anima. Cresce però nel vivaio del Nottingham Forest e non è solo il pallone a monopolizzare il suo tempo. C'è un'altra passione, forte quanto quella per il football, ed è quella per la musica. McGregor ha un gruppo che fa britpop, uno delle centinaia di gruppi che suonano quel genere di musica in quel periodo in quella parte di mondo, si chiamano Merc e insieme al Nottingham sono l'altra sua squadra, quella che alle maglie reds oppone eleganti divise casual. 


Accade che dal 1995 le due strade battute da Paul sembrano iniziare una piacevole discesa: comincia a trovare spazio nella prima squadra del Forest, a giocare, a segnare qualche gol (è un attaccante, e il punto più alto della sua storia d'amore con i Tricky Trees sarà una rete decisiva al passaggio del turno, segnata negli ottavi di Coppa Uefa contro il Lione) e pare che i Merc abbiano attirato l'attenzione di un certo Alan McGee. 

Alan McGee, nell'ambiente pop/rock del tempo, è il talent scout degli Oasis: come a dire, se vogliamo, il lungimirante scopritore dei nuovi Maradona cazzoni della musica. McGregor incanta come giovane promessa i tifosi del City Ground, col suo stile di gioco grintoso, col suo spirito di sacrificio, con la sua tenacia e, come leader dei Merc, solletica l'appetito di critici e giornalisti. Il momento d'oro, però, non dura.

Liam Gallagher e McGee, colui che scoprì gli Oasis.

Al Nottingham inizia a perdere posizioni nelle gerarchie dell'attacco: viene superato da Saunders, Roy, Kevin Campbell, Lee e pure da Andrea Silenzi, “il Pennellone”, ex Toro. I giorni di gloria, quelli da luminosa promessa, sembrano diventare uno sbiadito ricordo e come se non bastasse le aspettative sul futuro dei Merc si sgonfiano, come palloncini dopo una festa. McGee, il quale aveva programmato di assistere ad un live del gruppo al Rock City di Nottingham, al concerto non si presenterà mai. Da lì in poi, la celebrità raggiunta dal “primo calciatore Britpop”, così come era stato ribattezzato dai media, comincia a svanire. McGregor, che era sul punto di raggiungere due vette, d'un tratto si ritrova di nuovo al primo tornante, con le ruote della bici sgonfie. Dal 1998 fino al 2003, anno in cui chiude la sua carriera, comincia a girovagare per l'Inghilterra, attraverso le sue leghe minori. Prima in prestito, poi ceduto definitivamente dal Forest, vestirà le maglie di Carlisle, Preston North End, Plymouth e, infine, Northampton. I Merc invece si scioglieranno, lasciando dietro di loro pochissime tracce e tante illusioni.

Paul a fine carriera, in maglia Northampton (foto: NME.com)


Ma McGregor non uscirà di scena: abbandonato per sempre il pallone, si ritira solo temporaneamente dai palchi dei club d'Inghilterra, tornando nel 2006. Dal Britpop si è passati ad un rock industriale, più cupo, dai giovani Merc si è passati ai più esperti Ulterior. Paul ora si fa chiamare “Honey” e dopo l'album d'esordio i risultati, stavolta, arrivano: la band viene citata e recensita sulle pagine delle più importanti riviste musicali del Paese -NME su tutte- e collabora con artisti di fama internazionale (Horrors e Zlaya Hadzic). McGregor riscopre il brivido del rock, e sembra che la lieta disputa del suo cuore abbia finalmente un reale vincitore: le note trionfano sul cuoio.


             (qui "Wild in wildlife", singolo più riuscito del secondo album degli Ulterior)

La storia di Paul, a ben vedere, non ha i crismi della leggenda, ma profuma di quella curiosa normalità anglosassone che, per noi italiani, diventa affascinante anormalità. Non è stato il Micheal Owen della sua generazione e di certo nemmeno il successore Liam Gallagher, su questo non c'è dubbio, ma ha provato a rimanere in equilibrio su due fili, fragili e sottili, governando, nel punto più infuocato della sua gioventù, carriere che per noi comuni mortali sono la Sacra unione di due paradisi terreni. McGregor non è mai stato un normale calciatore e non sarà mai solo il leader degli Ulterior: è il nostro alter ego, di noi che calciamo palloni sgualciti su campi d'erba sintetica, di noi che proviamo ad assomigliare a Ian Brown per qualche ora, con lo stereo a tutto volume e la voce che prova ad andarci sopra. Lui è stato come noi, solo un po' più talentuoso... e forse anche un po' più affascinante. Ma a onor del vero, di questo, non mi interessa proprio un cazzo.  

giovedì 25 luglio 2013

ALEXY BOSETTI, GIOVANE ORGOGLIO NIZZARDO

 di Gianmarco Pacione (per seguircisu FB clicca qui)
Bosetti con la sua amata Popoulaire Sud
C’est si bon. Anche Louis Armstrong è stato nizzardo per tre, intense, parole. Pops e la sua tromba, figli dell’estro d’Henri Betti. Distanti un oceano dal loro timido genitore, nascosto tra spartiti e note, allattato maternamente, in tutto il suo genio, dai colori della Vieux-Nice.

Gli anni ’60 come oggi. Una pastellata meraviglia, marcato contorno dell’umido ciottolato. Finestre verdi senza età, affacciate, come bambini curiosi, alla continua ricerca della spuma marina, della dorata sabbia. Un grembo artistico dal sapore di salsedine.

Le BSN, sciolte nel 2010 dal Ministero dell'Interno francese
Nizza attrattiva, Nizza affascinante quasi quanto il suo popolo. Miscuglio linguistico e culturale ai limiti dell’irreale. Origini italiane, attualità francese. In tutto questo un’unica, enorme certezza: il senso d’appartenenza all’aquila incoronata. Tipico atteggiamento dei popoli costieri, tipica irrazionale compattezza di chi dovrebbe essere tutt’altro, di chi dovrebbe attingere al cosmopolitismo come primaria dottrina, di chi dovrebbe amare tutti. Dovrebbe.

martedì 16 luglio 2013

L'ISTANTE ETERNO DI GORDON

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook, clicca QUI)


Gordon, con quel viso pensoso, accigliato, lo sguardo profondo ed indecifrabile, i lineamenti poco britannici e molto sudamericani. Il più grande, l'unico, il nostalgico faro che getta ombre su tutti gli sfortunati successori che la storia ha giustiziato lungo i lustri, fino ad oggi. Atipico fisicamente e non solo. Perché i maestri inglesi hanno sempre avuto una non indifferente mancanza, un vuoto decisivo: il portiere. Il guardiano della rete, colui che, e la metafora in questo caso si presta alla perfezione, ha il compito di difendere i confini, l'ultimo presidio: nessuno prima, nessuno dopo Gordon Banks, il simbolo di un'epoca, di una speranza e, soprattutto, di un trionfo, quello del Mondiale del 1966. Eppure non esiste solo il Banks come parte essenziale di un tutto: esiste il Banks solitario, il protagonista di uno dei duelli individuali più appassionanti e fugaci della Storia. Inutile, a posteriori, ai fini di albi d'oro e trionfi ma imprescindibile, ancora oggi, se si vuol gustare a fondo l'essenza magnetica di questo gioco divino.

Banks in volo in allenamento (fonte: dailymail.co.uk)


Guadalajara, 1970. Il sole brucia il prato verde dello stadio, è ora di pranzo, i Tre Leoni inglesi sfidano il Brasile. E' il meglio che il calcio mondiale possa offrire: i campioni del mondo in carica contro i favoriti, gli eterni favoriti, gli inarrivabili artisti del futebol, capitanati da Pelé e dalla sua lunga schiera di fenomenali destrieri. Niente di meglio. La partita la vinceranno proprio loro, i verdeoro, grazie a un gol, un bellissimo gol, di Jairzinho. Uno a zero, entrambe le squadre supereranno il girone, ma l'Inghilterra verrà comunque eliminata ai quarti. Il Brasile, invece... beh, sappiamo tutti com'è andata a finire. Ma ancora una volta il risultato, a noi cultori del superfluo essenziale, non interessa.

Anzi, di quella memorabile e storica partita, paradossalmente, contano solo pochi secondi. Forse ancora meno. Contano pochi centesimi di secondo. Il Brasile è superiore, in tutto e per tutto, aiutato (o quantomeno non danneggiato) anche dal rovente caldo che poco si sposa con le attitudini degli avversari, ma non solo. I Carioca sono semplicemente una gioiosa e temibile armata senza pietà. Ma nonostante tutto, nonostante tabellini, statistiche e numeri, quel pomeriggio a Guadalajara il protagonista non è nero e non indossa i colori dei favoriti. Non indossa nemmeno l'elegante completino bianco inglese, ma anzi una maglia blu. Si chiama Gordon Banks, di ruolo fa il portiere, il ruolo dell'unicità per eccellenza, e quel pomeriggio a Guadalajara ha inciso il suo nome nella storia, per sempre, autore “della più grande parata del secolo”, trionfatore  incredulo del duello col più grande, O Rei Pelè.


Jairzinho è lanciato sulla corsia di destra, salta Cooper con disinvoltura, ma la palla sembra scorrere fuori, in fallo di fondo. Il numero 7 però ha un sussulto, riesce in un decisivo allungo prima che la sfera termini fuori: crossa al centro, ad occhi chiusi forse, a memoria, con la certezza che là dentro, “in the box”, ci sia pronto qualcuno dei suoi. D'altronde, loro, erano i migliori, e ai migliori riesce sempre tutto, a occhi aperti o chiusi poco importa. Il pallone s'impenna e sembra voler scendere proprio sulla testa di Pelè: il balzo della Perla Nera è da schiacciatore di pallacanestro. Sovrasta il difensore con esplosiva prepotenza, schiaccia il pallone di testa. Lo schiaccia forte, con la rabbia e la fame insaziabile di chi non vuole e non può aver pietà. Banks deve attraversare tutta la porta, dal primo palo difeso in occasione del cross di Jarizinho, fino all'altra estremità, dove è indirizzato il colpo di testa del numero 10 verdeoro. Il pallone, schiacciato a terra, prende ancora più forza e scappa veloce ed apparentemente inesorabile verso la rete, appena sotto la traversa. Sembra. Perchè Gordon compie un gesto che racchiude tutto: istinto, follia, atletismo, agilità, romanticismo, poesia, dramma. Tutto quanto, in qualche centesimo di secondo, a Guadalajara, sotto un cielo bruciato. Si inarca, come un'onda, e con il viso rivolto verso la linea di porta e le gambe verso l'interno del campo riesce a sopraffare il destino. Gli dice no. Dice no a lui e a Pelè, dice che non ci sta. Non crolla, gli costasse anche l'osso del collo, Banks, l'uomo con i lineamenti da indio è un inglese ruvido, uno pronto a tutto per i Tre Leoni. E lo dimostra, improvvisandosi tuffatore olimpionico, salvando il pallone a pochi centimetri dalla riga, a pochi centimetri dall'ennesima prodezza del solito mostro brasiliano. La palla, toccata dai guanti bianchi di Gordon, si impenna, perde velocità, e per un attimo i brasiliani, sicuri che sarebbe entrata, si saranno sentiti sollevati nel vederla ballare a ridosso della riga. “Deve entrare, entrerà, entrerà”. E invece no, lesa maestà. Il pallone si alza e sorvola la traversa, uscendo in calcio d'angolo.

Un fotogramma della "parata del secolo" (fonte:
guardian.co.uk)
Banks si alza, incassa il timido complimento di un suo compagno, e torna a prendere posto sulla riga di porto, lo sguardo basso. La solita camminata un po' ciondolante, la schiena piegata, i capelli che gli cadono sulla fronte abbronzata. Sembra non rendersi conto di ciò che ha appena compiuto. I volti attoniti e sconvolti dei presenti e dei milioni di appassionati di fronte alle televisioni di tutto il mondo. Pelé e i suoi compagni, abituati alle loro prodezze, iniziano a provare un feroce odio, tramutato presto in ammirazione, in un silenzioso inchino di fronte alla giocata più bella e inattesa che quel giorno il mondo potesse desiderare di ammirare.


Sta tutto lì dentro per gli inglesi, eterni orfani di guardiani affidabili, muri inscalfibili, estremi salvatori del Regno. Sta tutto lì, ciò che fu e ciò che venne dopo, prima o poi vi si ritorna sempre. Sta tutto dentro a Guadalajara, a Pelè, a Gordon Banks e al suo balzo. Con il cuore inondato di nostalgia e l'orgoglio vivo di una Storia perdente ma da non rinnegare. Mai.