venerdì 22 aprile 2016

FORZA URAL O MIO URAL: GITA NEL CALCIO DEGLI URALI

di Lorenzo Crisafulli




"Ragazzi avete vinto! Sarete voi a rappresentare la nostra università in Russia!" 

"Pazzesco! E dove dobbiamo andare di bello?" 

Nel mentre il pensiero volava già verso la grande Piazza Rossa di Mosca ed i maestosi edifici di San Pietroburgo. 

"Niente Mosca, né San Pietroburgo, andrete a Yekaterinburg!"

Yekaterinburg? Subito scatta la ricerca su internet di questo nome tanto sconosciuto quanto misterioso ed attraente. Naturalmente la seconda voce nella mia marcia di avvicinamento è una sola: esiste il calcio a Yekaterinburg? Le ricerche si fanno sempre più elaborate e, alla fine, giungo sospirando ad un nome: FC URAL.

L'arrivo nel territorio degli Urali porta prima di tutto alla luce certe domande che esulano dal campo: come si può vivere qui? Come fa la gente ad andare avanti in queste condizioni? Fidatevi, se doveste mai passare da queste parti sarebbero le prime domande che vi porreste.

Lorenzo con la sciarpa dell'Ural
In ogni caso un gruppo di ragazzi ci viene a prendere all'aeroporto e molto gentilmente una di loro mi porge il programma della settimana. In mezzo a conferenze e presentazioni varie noto una frase che mi mette in agitazione: Monday 18th of April 7pm FC Ural - Rubin Kazan. Sorpreso chiedo alla nostra amica Kamila se avessi letto bene, trovando conferma in un suo cenno: "Se volete domani sera possiamo andare allo stadio...", non me lo faccio ripetere due volte e convinco immediatamente tutti a venire.

"L'attesa del piacere è essa stessa il piacere" diceva Gotthold Ephraim Lessing. Mai frase fu più esplicativa delle emozioni provate fino al calcio d'inizio.

Lunedì, ore 17. Spostandoci verso lo stadio io e Sasha, il mio amico russo e traduttore di fiducia, notiamo come l'ambiente cambi radicalmente rispetto al centro città. La gente sembra aver quasi repulsione verso noi stranieri, ci squadrano, ci studiano, ma nessuno si azzarda a scambiare una parola. Arriviamo all'impianto accompagnati da un corteo di polizia armata ed in fibrillazione, col manganello saldo e pronta ad intervenire per sedare ogni minima tensione.

In questo clima di paura si apre davanti a noi il muro arancione.

Ci avviciniamo allo stadio con fare discreto ed incredibilmente noto una cosa che in Italia non sarebbe mai possibile vedere: i giocatori escono dal campo e si dirigono verso gli spogliatoi attraversando la strada in mezzo ai tifosi. Un altro elemento che attira la mia attenzione è la modestia dell'impianto e, incuriosito, avvicino un ragazzo allo store ufficiale:"Ma è questo lo stadio ufficiale dell'Ural?" Lui, quasi stizzito, inizialmente lascia trasparire un certo disgusto per la domanda appena fatta, rispondemi con un secco "niet" (no); poi, grazie a Sasha, mi faccio raccontare il perché di questa risposta e scopro che purtroppo per questa stagione e, probabilmente, anche per la prossima, l'Ural sarà obbligato a giocare in questo modesto campo, dato che il vecchio UralMash Stadium è in fase di ristrutturazione per il mondiale 2018. 


I giocatori attraversano la strada per riscaldarsi

L'argomento sembra stare parecchio a cuore al mio nuovo interlocutore locale, così prendo coraggio ed inizio a chiedergli maggiori dettagli riguardo la storia dell'Ural e del sul tifo. Anche in questo caso la risposta tarda ad arrivare, ma grazie al mio traduttore riesco a capire che l'Ural e, in generale, il calcio in Russia ricoprono un ruolo secondario. Lo sport che la fa da padrone qui è uno solo: manco a dirlo l'hockey su ghiaccio. 

Purtroppo Dimitri ci deve lasciare, la partita sta per iniziare e tra una birra e uno snack caratteristico, dal nome e contenuto sconosciuto, prendiamo posto in tribuna. La contesa in sé non regala grandi emozioni: due squadre di metà classifica, a poche giornate dalla fine del campionato e senza obiettivi, portano ad un'inevitabile stagnazione del gioco sulla linea mediana del campo.

Uno scorcio della zona calda
Sugli spalti, invece, inizia la festa, perché proprio di festa si tratta. La curva inizia ad inneggiare con tamburi e trombe, tutto lo stadio segue con ritmo incessante ogni singolo coro. All'improvviso mi rendo conto che la curva non sta né guardando il campo né gli avversari del Rubin, bensì noi in tribuna. Non capendo cosa stia succedendo mi giro verso Sasha e lui mi fa capire che devo pazientare. 20 secondi dopo le mie domande trovano una risposta ed inizia una sorta di ping pong gutturale tra la curva e la tribuna all'urlo di "forza Ural o mio Ural": la litania si tira avanti per almeno due o tre minuti abbondanti.

Nel secondo tempo la musica non cambia: partita noiosa (con il solo autogol dell'Ural ad animare, negativamente, la folla) e sugli spalti si continua a cantare e "ballare". La tromba, incessante punto di riferimento, detta il ritmo come in una corrida ghiacciata e lo stadio si appoggia su di essa per gridare il proprio amore. Le bandiere arancio-nere sventolano all'unisono anche contro il freddo e le intemperie, la fede guida i tifosi in una simbiosi quasi assoluta con la propria maglia. A fine partita il tabellone recita Ural 0 - Rubin 1, ma questo in fondo poco importa.

Uscendo dallo stadio incontro nuovamente Dimitri. Questa volta il suo approccio sembra più gentile, amichevole e ci invita a prendere una birra con i suoi amici. Purtroppo, a causa di impegni ufficiali con l'università siamo costretti a rifiutare, ma prima di tornare nel viale polveroso e desolato mi fermo un attimo e gli porgo un'ultima domanda: "Dimitri, ma perché avete una chiesa accanto allo stadio?". La sua risposta mi prende in contropiede: "Vedi, la fede per l'Ural e per il calcio in generale è come la fede in Dio, tante cose rischiano di farti allontanare da lei, ma essa è talmente forte che prima o poi tutti tornano da lei. La chiesa è qui per questo, un monito per ricordarci a chi destinare il nostro amore". 



La chiesa abbracciata allo stadio

È ora di andare e tutto sembra tornare coperto da quella coltre di fumo e grigiore che aleggia in ogni angolo della città. La polizia si apre come il Mar Rosso e noi, in un silenzio quasi surreale, rientriamo verso la metropolitana.

La festa è finita, andate in pace, ma quella tromba e quei tamburi continueranno a dettare il battito del cuore che rappresenta tutta la regione degli Urali. Forza Ural o mio Ural!


mercoledì 6 aprile 2016

FAVOLA D'UN SENZATETTO. IL FUTEBOL E BEBÉ.

di Gianmarco Pacione (per seguirci su Fb clicca qui)

Bebé in maglia Rayo

Si muovono frenetici trecento piedi, battono forte il suolo come timpani d’orchestra, scandiscono il tempo d’un futebol bambinesco, spensierato, isolato.  

Vamos Bebè!” strilla la pelota: nell’informe e divertita massa di corpi si fa lustrare dal destro d’un giovane prescelto dai capelli pazzi. Estate 2009, la Casa do Gaiato di Lisbona sta respirando calcio durante la classica ora di svago pomeridiano: ospita centocinquanta bambini stipati in una cancha polverosa, un campo senza linee laterali ed incorniciato da porte arrugginite. Gli sbarbati giocatori hanno un’unica, imponente particolarità ad accomunarli: sono tutti orfani. Tutti meno uno

Tiago Manuel Dias Correia, per tutti Bebè, vive tra le mura di questo centro da 10 anni e, diciannovenne, ha appena firmato il suo primo contratto da professionista. 

Bebé nella Casa do Gaiato

Non ce la faccio, non riesco ad accontentare tutti…” diceva l’avó, la nonna Ilda, appena prima di mandarlo in quella grande famiglia priva di padri e madri. “Tranquilla nonna, andrà tutto bene, so quanto tieni a me, a mia sorella, ai miei tre fratelli: da sola non puoi mantenerci tutti, vedrai che qui dentro mi divertirò”, le rispondeva un incerto nipote di 9 anni: era stato abbandonato dalla madre dopo il divorzio, era stato schivato dal padre in un sadico nascondino senza fine, senza soluzione; ora doveva salutare anche nonna Ilda, suo unico punto di riferimento.

La rappresentativa portoghese in Bosnia, svetta su tutti Bebé
Il percorso di Bebè nel campo minato della vita aveva assunto rapidamente i contorni d’un brutto sogno, un incubo allontanato a suon di calci e sorrisi nel cortile della Casa do Gaiato: “Entrai lì a 9 anni, all’epoca non m’interessava il calcio; a 14 anni i miei amici, i miei nuovi fratelli, mi forzarono a giocare e solo allora cominciarono i giorni interi di partite insieme a loro”. Anni trascorsi a lavare piatti, ad apprendere la rudezza della vita ed il profumo dei piccoli valori quotidiani; anni di futebol da calle, da strada, distante anni luce dalle dottrine tattiche delle accademies e dai banali esercizi delle scuole calcio: un futebol a rime portoghesi, composto e diretto da piedi veloci, da corpi ossuti e spigolosi come scogli.

Niente partite, niente osservatori: Bebè diventa maggiorenne, nel 2008, senza aver messo la testa e soprattutto i piedi fuori dalla Casa do Gaiato. Un tesoro nascosto, una bomba ad orologeria che detona nel più originale ed inaspettato dei modi. “Un giorno mi chiamò padre Arsenio, mi chiese se volessi giocare gli Europei dei senzatetto organizzati in Bosnia. Risposi che mi sarebbe piaciuto, arrivai là e segnai 40 gol in 6 partite. Per la prima volta qualcuno mi vide giocare e subito mi segnalarono all’Estrela de Amadora (terza serie portoghese)”. 

Dai clochard al professionismo, con 15mila euro di stipendio annuale. Bebè però continua a vivere in orfanotrofio, inizialmente rifiuta il passaggio al Vitoria Guimaraes per non abbandonare quei 149 fratelli, figli in realtà d’un genitore unico: il calcio polveroso. “Non volevo andarmene, era la mia famiglia. Mi sentivo protetto e non sapevo cos’avrei trovato lontano da loro”. 
Con Sir Alex

Ma Bebè saluta presto la Casa do Gaiato. Dopo appena tre mesi con il Vitoria Guimaraes la sua fiaba impenna in maniera incontrollabile: “Mi dissero che il Manchester United voleva comprarmi. Pensai ad uno scherzo, poi vidi Jorge Mendes insieme a tre uomini della società: era tutto vero”. 

Tutto, forse, troppo vero. Bebè attraversa la Manica per 7,4 milioni di sterline e si smarrisce: pare un viandante giunto al Teatro dei Sogni quasi per caso. Ferguson confessa d’averlo acquistato a scatola chiusa, senza aver osservato video o partite, caso unico in tutta la nobile carriera. 

A Manchester la cancha di Bebè diventa panchina prima, tribuna poi. “Penso di essere molto simile a Cristiano Ronaldo” tuona, in conferenza stampa, tra tsunami di sopracciglia alzate degli addetti ai lavori. In quattro anni non parte mai titolare in Premier: “L’abbiamo preso per fare beneficenza” ruggiscono, ironici, i rossi mancunians durante i pochissimi spezzoni di partita giocati dall’esterno offensivo. 

(Qui il "Bebé crossing show" contro i Wolves)

Da finto senzatetto Bebè diventa il tipico esemplare di calciatore-homeless, costretto a girare vorticosamente in un incontrollabile calderone di prestiti e passaggi di proprietà. Beşiktaş (malissimo), Rio Ave (malino), Paços de Ferreira (bene con 12 reti in 27 gare), Benfica (firmando un contratto fino al 2018) e Cordoba: il giovane dai capelli pazzi apparentemente non ha più famiglia, non ha più casa.  

A rapporto da Paco Jemez
Apparentemente. Almeno fino all’estate 2015, quando a farsi avanti è la tribù di Vallecas, orchestrata dal mistico profeta Paco Jemez. Già, un carismatico ed affettuoso pater familias per un orfano del football. Bebè trova casa tra i Bukaneros, nel barrio più caldo e fagocitante di Madrid: s’innamora in un attimo, ambienta il suo metro e 90 di estro cominciando a sfrecciare sulle fasce di tutta Spagna, incidendo per applicazione e qualità. Trova continuità e tranquillità, giocando 28 gare nella stagione attuale, servendo 6 assistenze e siglando tre reti (strepitosa quella all’Espanyol). 

Salire per poi scendere. Scendere per poi salire. Chissà come finirà quest’allucinata favola portoghese, opera d’un fato schizofrenico. A dircelo saranno i fratelli di Vallecas cantando il nome d’un ala sorridente, saranno i fratelli della Casa do Gaiato raccontando la leggenda del ragazzo dai capelli pazzi; a dircelo sarà Bebè: figlio legittimo di futebol e talento.