venerdì 22 aprile 2016

FORZA URAL O MIO URAL: GITA NEL CALCIO DEGLI URALI

di Lorenzo Crisafulli




"Ragazzi avete vinto! Sarete voi a rappresentare la nostra università in Russia!" 

"Pazzesco! E dove dobbiamo andare di bello?" 

Nel mentre il pensiero volava già verso la grande Piazza Rossa di Mosca ed i maestosi edifici di San Pietroburgo. 

"Niente Mosca, né San Pietroburgo, andrete a Yekaterinburg!"

Yekaterinburg? Subito scatta la ricerca su internet di questo nome tanto sconosciuto quanto misterioso ed attraente. Naturalmente la seconda voce nella mia marcia di avvicinamento è una sola: esiste il calcio a Yekaterinburg? Le ricerche si fanno sempre più elaborate e, alla fine, giungo sospirando ad un nome: FC URAL.

L'arrivo nel territorio degli Urali porta prima di tutto alla luce certe domande che esulano dal campo: come si può vivere qui? Come fa la gente ad andare avanti in queste condizioni? Fidatevi, se doveste mai passare da queste parti sarebbero le prime domande che vi porreste.

Lorenzo con la sciarpa dell'Ural
In ogni caso un gruppo di ragazzi ci viene a prendere all'aeroporto e molto gentilmente una di loro mi porge il programma della settimana. In mezzo a conferenze e presentazioni varie noto una frase che mi mette in agitazione: Monday 18th of April 7pm FC Ural - Rubin Kazan. Sorpreso chiedo alla nostra amica Kamila se avessi letto bene, trovando conferma in un suo cenno: "Se volete domani sera possiamo andare allo stadio...", non me lo faccio ripetere due volte e convinco immediatamente tutti a venire.

"L'attesa del piacere è essa stessa il piacere" diceva Gotthold Ephraim Lessing. Mai frase fu più esplicativa delle emozioni provate fino al calcio d'inizio.

Lunedì, ore 17. Spostandoci verso lo stadio io e Sasha, il mio amico russo e traduttore di fiducia, notiamo come l'ambiente cambi radicalmente rispetto al centro città. La gente sembra aver quasi repulsione verso noi stranieri, ci squadrano, ci studiano, ma nessuno si azzarda a scambiare una parola. Arriviamo all'impianto accompagnati da un corteo di polizia armata ed in fibrillazione, col manganello saldo e pronta ad intervenire per sedare ogni minima tensione.

In questo clima di paura si apre davanti a noi il muro arancione.

Ci avviciniamo allo stadio con fare discreto ed incredibilmente noto una cosa che in Italia non sarebbe mai possibile vedere: i giocatori escono dal campo e si dirigono verso gli spogliatoi attraversando la strada in mezzo ai tifosi. Un altro elemento che attira la mia attenzione è la modestia dell'impianto e, incuriosito, avvicino un ragazzo allo store ufficiale:"Ma è questo lo stadio ufficiale dell'Ural?" Lui, quasi stizzito, inizialmente lascia trasparire un certo disgusto per la domanda appena fatta, rispondemi con un secco "niet" (no); poi, grazie a Sasha, mi faccio raccontare il perché di questa risposta e scopro che purtroppo per questa stagione e, probabilmente, anche per la prossima, l'Ural sarà obbligato a giocare in questo modesto campo, dato che il vecchio UralMash Stadium è in fase di ristrutturazione per il mondiale 2018. 


I giocatori attraversano la strada per riscaldarsi

L'argomento sembra stare parecchio a cuore al mio nuovo interlocutore locale, così prendo coraggio ed inizio a chiedergli maggiori dettagli riguardo la storia dell'Ural e del sul tifo. Anche in questo caso la risposta tarda ad arrivare, ma grazie al mio traduttore riesco a capire che l'Ural e, in generale, il calcio in Russia ricoprono un ruolo secondario. Lo sport che la fa da padrone qui è uno solo: manco a dirlo l'hockey su ghiaccio. 

Purtroppo Dimitri ci deve lasciare, la partita sta per iniziare e tra una birra e uno snack caratteristico, dal nome e contenuto sconosciuto, prendiamo posto in tribuna. La contesa in sé non regala grandi emozioni: due squadre di metà classifica, a poche giornate dalla fine del campionato e senza obiettivi, portano ad un'inevitabile stagnazione del gioco sulla linea mediana del campo.

Uno scorcio della zona calda
Sugli spalti, invece, inizia la festa, perché proprio di festa si tratta. La curva inizia ad inneggiare con tamburi e trombe, tutto lo stadio segue con ritmo incessante ogni singolo coro. All'improvviso mi rendo conto che la curva non sta né guardando il campo né gli avversari del Rubin, bensì noi in tribuna. Non capendo cosa stia succedendo mi giro verso Sasha e lui mi fa capire che devo pazientare. 20 secondi dopo le mie domande trovano una risposta ed inizia una sorta di ping pong gutturale tra la curva e la tribuna all'urlo di "forza Ural o mio Ural": la litania si tira avanti per almeno due o tre minuti abbondanti.

Nel secondo tempo la musica non cambia: partita noiosa (con il solo autogol dell'Ural ad animare, negativamente, la folla) e sugli spalti si continua a cantare e "ballare". La tromba, incessante punto di riferimento, detta il ritmo come in una corrida ghiacciata e lo stadio si appoggia su di essa per gridare il proprio amore. Le bandiere arancio-nere sventolano all'unisono anche contro il freddo e le intemperie, la fede guida i tifosi in una simbiosi quasi assoluta con la propria maglia. A fine partita il tabellone recita Ural 0 - Rubin 1, ma questo in fondo poco importa.

Uscendo dallo stadio incontro nuovamente Dimitri. Questa volta il suo approccio sembra più gentile, amichevole e ci invita a prendere una birra con i suoi amici. Purtroppo, a causa di impegni ufficiali con l'università siamo costretti a rifiutare, ma prima di tornare nel viale polveroso e desolato mi fermo un attimo e gli porgo un'ultima domanda: "Dimitri, ma perché avete una chiesa accanto allo stadio?". La sua risposta mi prende in contropiede: "Vedi, la fede per l'Ural e per il calcio in generale è come la fede in Dio, tante cose rischiano di farti allontanare da lei, ma essa è talmente forte che prima o poi tutti tornano da lei. La chiesa è qui per questo, un monito per ricordarci a chi destinare il nostro amore". 



La chiesa abbracciata allo stadio

È ora di andare e tutto sembra tornare coperto da quella coltre di fumo e grigiore che aleggia in ogni angolo della città. La polizia si apre come il Mar Rosso e noi, in un silenzio quasi surreale, rientriamo verso la metropolitana.

La festa è finita, andate in pace, ma quella tromba e quei tamburi continueranno a dettare il battito del cuore che rappresenta tutta la regione degli Urali. Forza Ural o mio Ural!


mercoledì 6 aprile 2016

FAVOLA D'UN SENZATETTO. IL FUTEBOL E BEBÉ.

di Gianmarco Pacione (per seguirci su Fb clicca qui)

Bebé in maglia Rayo

Si muovono frenetici trecento piedi, battono forte il suolo come timpani d’orchestra, scandiscono il tempo d’un futebol bambinesco, spensierato, isolato.  

Vamos Bebè!” strilla la pelota: nell’informe e divertita massa di corpi si fa lustrare dal destro d’un giovane prescelto dai capelli pazzi. Estate 2009, la Casa do Gaiato di Lisbona sta respirando calcio durante la classica ora di svago pomeridiano: ospita centocinquanta bambini stipati in una cancha polverosa, un campo senza linee laterali ed incorniciato da porte arrugginite. Gli sbarbati giocatori hanno un’unica, imponente particolarità ad accomunarli: sono tutti orfani. Tutti meno uno

Tiago Manuel Dias Correia, per tutti Bebè, vive tra le mura di questo centro da 10 anni e, diciannovenne, ha appena firmato il suo primo contratto da professionista. 

Bebé nella Casa do Gaiato

Non ce la faccio, non riesco ad accontentare tutti…” diceva l’avó, la nonna Ilda, appena prima di mandarlo in quella grande famiglia priva di padri e madri. “Tranquilla nonna, andrà tutto bene, so quanto tieni a me, a mia sorella, ai miei tre fratelli: da sola non puoi mantenerci tutti, vedrai che qui dentro mi divertirò”, le rispondeva un incerto nipote di 9 anni: era stato abbandonato dalla madre dopo il divorzio, era stato schivato dal padre in un sadico nascondino senza fine, senza soluzione; ora doveva salutare anche nonna Ilda, suo unico punto di riferimento.

La rappresentativa portoghese in Bosnia, svetta su tutti Bebé
Il percorso di Bebè nel campo minato della vita aveva assunto rapidamente i contorni d’un brutto sogno, un incubo allontanato a suon di calci e sorrisi nel cortile della Casa do Gaiato: “Entrai lì a 9 anni, all’epoca non m’interessava il calcio; a 14 anni i miei amici, i miei nuovi fratelli, mi forzarono a giocare e solo allora cominciarono i giorni interi di partite insieme a loro”. Anni trascorsi a lavare piatti, ad apprendere la rudezza della vita ed il profumo dei piccoli valori quotidiani; anni di futebol da calle, da strada, distante anni luce dalle dottrine tattiche delle accademies e dai banali esercizi delle scuole calcio: un futebol a rime portoghesi, composto e diretto da piedi veloci, da corpi ossuti e spigolosi come scogli.

Niente partite, niente osservatori: Bebè diventa maggiorenne, nel 2008, senza aver messo la testa e soprattutto i piedi fuori dalla Casa do Gaiato. Un tesoro nascosto, una bomba ad orologeria che detona nel più originale ed inaspettato dei modi. “Un giorno mi chiamò padre Arsenio, mi chiese se volessi giocare gli Europei dei senzatetto organizzati in Bosnia. Risposi che mi sarebbe piaciuto, arrivai là e segnai 40 gol in 6 partite. Per la prima volta qualcuno mi vide giocare e subito mi segnalarono all’Estrela de Amadora (terza serie portoghese)”. 

Dai clochard al professionismo, con 15mila euro di stipendio annuale. Bebè però continua a vivere in orfanotrofio, inizialmente rifiuta il passaggio al Vitoria Guimaraes per non abbandonare quei 149 fratelli, figli in realtà d’un genitore unico: il calcio polveroso. “Non volevo andarmene, era la mia famiglia. Mi sentivo protetto e non sapevo cos’avrei trovato lontano da loro”. 
Con Sir Alex

Ma Bebè saluta presto la Casa do Gaiato. Dopo appena tre mesi con il Vitoria Guimaraes la sua fiaba impenna in maniera incontrollabile: “Mi dissero che il Manchester United voleva comprarmi. Pensai ad uno scherzo, poi vidi Jorge Mendes insieme a tre uomini della società: era tutto vero”. 

Tutto, forse, troppo vero. Bebè attraversa la Manica per 7,4 milioni di sterline e si smarrisce: pare un viandante giunto al Teatro dei Sogni quasi per caso. Ferguson confessa d’averlo acquistato a scatola chiusa, senza aver osservato video o partite, caso unico in tutta la nobile carriera. 

A Manchester la cancha di Bebè diventa panchina prima, tribuna poi. “Penso di essere molto simile a Cristiano Ronaldo” tuona, in conferenza stampa, tra tsunami di sopracciglia alzate degli addetti ai lavori. In quattro anni non parte mai titolare in Premier: “L’abbiamo preso per fare beneficenza” ruggiscono, ironici, i rossi mancunians durante i pochissimi spezzoni di partita giocati dall’esterno offensivo. 

(Qui il "Bebé crossing show" contro i Wolves)

Da finto senzatetto Bebè diventa il tipico esemplare di calciatore-homeless, costretto a girare vorticosamente in un incontrollabile calderone di prestiti e passaggi di proprietà. Beşiktaş (malissimo), Rio Ave (malino), Paços de Ferreira (bene con 12 reti in 27 gare), Benfica (firmando un contratto fino al 2018) e Cordoba: il giovane dai capelli pazzi apparentemente non ha più famiglia, non ha più casa.  

A rapporto da Paco Jemez
Apparentemente. Almeno fino all’estate 2015, quando a farsi avanti è la tribù di Vallecas, orchestrata dal mistico profeta Paco Jemez. Già, un carismatico ed affettuoso pater familias per un orfano del football. Bebè trova casa tra i Bukaneros, nel barrio più caldo e fagocitante di Madrid: s’innamora in un attimo, ambienta il suo metro e 90 di estro cominciando a sfrecciare sulle fasce di tutta Spagna, incidendo per applicazione e qualità. Trova continuità e tranquillità, giocando 28 gare nella stagione attuale, servendo 6 assistenze e siglando tre reti (strepitosa quella all’Espanyol). 

Salire per poi scendere. Scendere per poi salire. Chissà come finirà quest’allucinata favola portoghese, opera d’un fato schizofrenico. A dircelo saranno i fratelli di Vallecas cantando il nome d’un ala sorridente, saranno i fratelli della Casa do Gaiato raccontando la leggenda del ragazzo dai capelli pazzi; a dircelo sarà Bebè: figlio legittimo di futebol e talento.



martedì 2 febbraio 2016

UN TUFFO A GOODISON PARK: SPEEDO MICK

di Redazione (per seguirci su fb clicca qui)

Speedo Mick sullo sfondo dopo un gol dei toffees

"Ma chi è quel pazzo in costume?". Da qualche tempo a Goodison Park un uomo sfida freddo, sguardi meravigliati e convenzioni sociali. Lo fa consapevole, fiero: vuole sensibilizzare e ricavare soldi da donare in beneficenza. Michael Cullen è un supereroe degli spalti, un Toffee che rapidamente si sta contornando d'aura leggendaria. Noi di Parterre l'abbiamo contattato incuriositi. Una serie di domande per sapere qualcosa di più su Speedo Mick, per conoscere meglio quell'uomo in costume che esulta ad ogni rete di Lukaku. 

Buonasera Mister Cullen... o Speedo Mick. Fa freddo lì? Qui ci sono cinque gradi e per uscire a portare fuori la spazzatura dobbiamo vestirci come orsi. Non ci sentiamo affatto uomini: intervistarla, a dirla tutta, è abbastanza imbarazzante. 

"Let's kick cancer into touch"
In Italia pensiamo al calcio inglese come un mondo ancora puro, magico, appassionante. Ma la realtà pare un po' diversa: gli stadi somigliano ormai sempre più a teatri, per esempio. Forse è per questo che potremmo definirti il giullare ribelle del calcio inglese. La definizione calza?

Sono un ribelle ma ho una causa. Ed è combattere il cancro. E ovviamente andare a vedere il mio amato Everton! Siamo dell'Everton, non siamo teatrali ma passionali. Viviamo per il sabato pomeriggio e ci occupiamo l'uno dell'altro nella nostra comunità. Non siamo affatto ricchi, ma non siamo secondi a nessuno quando si tratta di darci una mano o di supportare qualcuno in modo tale che quello/a non lo scordi mai.

Hai cominciato tutto questo dopo aver attraversato il Canale della Manica a nuoto. Ti spingerai verso nuove avventure? Cosa dovremmo aspettarci da te, d'ora in avanti? 

Ho iniziato a indossare i miei Speedo già dalla scorsa stagione. Li ho indossati anche in Svizzera contro lo Young Boys e a Kiev contro la Dinamo; credetemi, lì faceva davvero freddo (ed è stato piuttosto imbarazzante). Faccio tutti i 90 minuti, in casa e trasferta, con i miei occhialini e la mia cuffia, lo farò fino all'ultimo minuto della stagione per raccogliere fondi per il Woodlands Hospice. Finora ho raccolto 15mila Sterline, soldi che mi sono stati donati dai tifosi di tutto il Paese ma non solo: mi hanno aiutato anche tifosi italiani, americani, australiani e canadesi. Devo soprattutto congratularmi e ringraziare i tifosi dell'Everton che hanno continuato a supportare la mia causa ogni singola settimana.

Scarpe, costume, sciarpa e cuffia...
Per ora la sfida è di indossare il mio costume fino alla fine della stagione, poi vorrei diventare il primo uomo della storia ad andare ad una finale di coppa a Wembley con occhialini e cuffia: purtroppo quest'anno tutto è sfumato dopo la sconfitta per 3-1 contro il City, ma credetemi, succederà. Dopo il termine della stagione, poi, spero di riuscire ad attraversare i Pirenei. In costume, ovviamente.


Speedo Mick hai trovato lungo il tuo cammino qualche groupie sugli spalti? O è sempre stata una questione di mal di pancia e gelo?

No, niente groupie (ride). Ma ho migliaia di fan dell'Everton e di altre squadre in tutto il paese. E sì, si gela sempre. L'unica cosa che mi scalda sono i gol dei Toffees.

Non ti chiederemo se "ne vale la pena" perché sappiamo che stai facendo tutto questo per beneficenza e ciò è veramente lodevole ma... te lo sei mai chiesto, lungo quegli interminabili gelidi minuti con soltanto il tuo Speedo addosso?


Non ho mai avuto dubbi su quel che stessi facendo. A parte quando abbiamo giocato col City l'altra sera (ndr: partita di Capital One Cup) quando faceva davvero freddo e mi sono chiesto che diavolo avessi in testa, ma finché lo pensavo un ragazzino è venuto da me e mi ha dato 5 sterline dicendomi "Questo è da parte di mio nonno. Non sta benissimo, anche lui ha il cancro ma mi ha detto di ringraziarti e di portarti il messaggio e questa piccola donazione". Ed ecco perché guardo le partita in costume. Quindi sì, ne vale decisamente la pena.

Mad Clive del Bournemouth si è già unito alla causa di Mick
Le nostre madri ci dicono sempre di indossare le ciabatte quando andiamo in piscina, ormai è una tradizione. Tu le indossi? E' piuttosto importante... ad un sacco di persone interesserà al termine di questa intervista.

Certo! Indosso sempre le ciabatte in piscina. Potete stare tranquilli! (Ride ancora)


Ti chiediamo una cosa importante, Michael: la birra facilita la resistenza?

Non bevo birra, sono solamente un folle. Sono un malato di tè! In inglese "tea-total".

Ti aspetti qualcosa dalla società, a fine stagione? Magari biglietti gratis, gadget, sponsorizzazioni, un incontro con la squadra o... una gara di nuoto con qualcuno? 

Non mi aspetto nulla dalla società, è soltanto qualcosa che faccio perché mi piace nonostante il gran freddo. Sono in lizza per diventare "tifoso dell'anno", ma sono certo che ci sono tifosi dell'Everton più meritevoli di questo riconoscimento. Se dovessi esprimere un desiderio, vorrei una foto con tutti i giocatori dell'Everton. In costume, cuffia e occhialini. Diventerebbe una foto immortale!


Parlando di calcio, qual è il tuo giocatore preferito nella storia Toffee?

Il mio giocatore preferito quando ero ragazzino era Mick Lyons: fece il suo debutto contro il Forest nel 1971 e diventò poi un eroe nella storia del club. Un difensore incredibile, veniva sempre spedito in avanti negli ultimi minuti quando la squadra era alla ricerca di un gol. Ecco come ha fatto a segnare 59 gol nelle sue 473 presenze con l'Everton, gran parte delle quali giocate con la fascia da capitano. Una volta disse che avrebbe corso attraverso un muro di mattoni per l'Everton. Quelle parole descrissero perfettamente l'attitudine di un giocatore che fu esemplare, leggendario. Lasciò Goodison Park nel 1982. E' stato poi nominato come "Everton Giant" alla decima edizione degli "End of Season Awards" organizzati dalla società, nel maggio 2015.

Te la senti di promettere qualcosa nel caso l'Everton si qualificasse per le coppe europee? Immagina, sorteggi di Europa League. Gruppo G: Everton, Helsinki, Rosenborg, Wolfsburg. Brrrr.

Prego e spero di riuscire ad arrivare in Europa l'anno prossimo. La squadra c'è, ma i risultati mancano. Se vincessimo la Capital One Cup continuerò a viaggiare in giro per l'Europa assieme ai nostri fantastici tifosi. Wolsfburg o Helsinki? Non importa, sarò là a tremare! So che potreste definirmi pazzo, ma si vive una volta sola, quindi divertiamoci e facciamo sorridere chi ne ha bisogno.

Vorremmo aiutarti nella tua ammirevole iniziativa. Dì ai nostri lettori come fare, e speriamo tutti quanti che presto avrai nuovi sostenitori direttamente dal nostro Paese. Anche perché pure qui è pieno di matti dal cuore d'oro: cooperazione internazionale, ecco come si chiama.

Visitate www.justgiving.com>SpeedoMick. Ecco come potete aiutarmi, anche con una minima donazione. Grazie Italia, grazie Parterre!

Grazie per il tuo tempo, Speedo Mick. Speriamo di vederti presto su e giù dal paese. E ci auguriamo che sia un inverno veloce: sei pazzo, e ci piace.



venerdì 15 gennaio 2016

AVELLINO-SALERNITANA, ALLEGORIA D'UN DERBY INFUOCATO

di Gianmarco Pacione (clicca qui per seguirci su Fb)

Mi hanno chiesto cosa simboleggi il derby campano tra verdi e granata, tra lupi ed ippocampi

"Scrivi su Parterre, o come si chiama, no? Non parlate di calcio, lì? Qualcosa saprai dirmi...". 

Disorientato ho provato a rispondere con frasi goffe e sconnesse, innaffiandole con qualche "mistico" di troppo, speziandole pure con il banale ritornello della "partita diversa da tutte le altre". 

Non è facile descrivere certi campanilismi, soprattutto se vissuti ad uno Stivale di distanza; noi di Parterre, così, abbiamo deciso d'evitare artificiose congetture: il derby ce lo siamo fatti spiegare da chi l'ha vissuto epidermicamente in tutta la sua carica emotiva, in tutta la sua tensione quotidiana

S.A. (lo chiameremo così, onde evitargli ulteriori problemi), anonimo ragazzo del salernitano,  ci racconta la sua particolarissima storia: allegoria d'uno scontro instancabilmente bollente

S.A.: "Bisogna tornare indietro, al 2013, quando giocavo nei Giovanissimi dell'Avellino. All'epoca avevo iniziato ad andare in curva della Salernitana. Da tifoso vestivo granata, da giocatore di verde: una situazione molto particolare. Il fattaccio avvenne durante il derby contro il Napoli: segnai il gol del 2-1 ed alzai la maglia, sotto avevo la t-shirt degli Ultras Salernitana. Sapete, a 13 anni non avevo pensato alle conseguenze, mi sembrava un semplice sfottò da regalare allo sparuto pubblico napoletano: non doveva essere una mancanza di rispetto alla mia squadra e ad Avellino. 

Invece... Invece dal giorno successivo diventai da un lato un eroe, dall'altro un nemico pubblico. Si susseguivano messaggi d'insulti dagli avellinesi (anche pesanti minacce) e congratulazioni estasiate dai miei amici dell'Arechi: un viavai incessante di contatti da centinaia e centinaia di persone, moltissime non le conoscevo.

La società, condizionata dall'uragano mediatico, mi sospese addirittura a tempo indeterminato, convocando la famiglia per un confronto. Quella goliardata mi costò cara, carissima, mi fece capire quanto fosse radicata e potente la suggestione del derby in questi due popoli

Gli striscioni esposti (forse) nella città rivale
A distanza di qualche mese, poi, le acque si sono fortunatamente calmate e ho cambiato maglia, finendo a giocare proprio nella società che fin da piccolino avevo amato: la Salernitana."

Questo è Avellino-Salernitana, nulla di meno: un viaggio nelle più recondite ed affascinanti viscere di due fazioni, due città separate da mezz'ora di macchina e lustri di rivalità. Oggi il Partenio, la "tana del lupo", ospiterà l'ennesimo capitolo d'un romanzo a tinte infuocate: già inaugurato da uno scambio di  cordiali striscioni appesi nelle città

"Salerno Merda" a battezzare una delle principali vie salernitane; "Pronti Alla Battaglia", in granata, a confezionare il territorio nemico appena all'esterno del Partenio. Scaramucce che fanno colore, piccoli sgarbi che rendono, proprio come la storia di S.A., più vivo e tangibile questo derby anche a chi, come noi, non lo può vivere da vicino. 

Lupi ed Ippocampi, verdi e granata: appuntamento alle 15.00. 


sabato 2 gennaio 2016

FIAMME DI CALCIO: LA TRADIZIONE DEL SEPAK BOLA API

di Gianmarco Pacione (per seguirci su fb clicca qui)

Un giocatore di Sepak Bola Api intento a calciare



Esiste una tradizione che, anno dopo anno, illumina flebilmente il mosaico insulare indonesiano.
Piedi bruciacchiati, vestiti grondanti di sudore, fuoco guizzante: si presenta così, agli occhi d'un profano qualsiasi, il Sepak Bola Api.

Bisogna navigare a vista tra le 17507 isole della Repubblica d'Indonesia, un tempo governate dai Paesi Bassi, per scovare questa disciplina aggrappata agli usurati spartiti del folclore e della religione.
Una fase di gioco
La zona maggiormente interessata è quella meridionale, corrispondente ai centri di Yogyakarta, Bogor e Tasikmalaya: pulsanti focolai musulmani e sedi di scuole religiose. Proprio all'interno di queste strutture si fronteggiano, allo scadere dell'annuale Ramadan, i partecipanti del "Calcio Infuocato".

Prima di farlo, però, trascorrono tutti 21 giorni d'ossessiva preparazione spirituale e fisica: una sorta di lungo ritiro autoimposto.

In queste tre settimane recitano maniacalmente delle speciali preghiere, evitando di mangiare cibi cucinati utilizzando il fuoco. Una notte ed un giorno senza dormire sono poi l'ultimo capitolo dell'affascinante marcia verso il grande evento: cammino che conduce i giocatori all'immunità (o presunta tale) da qualsiasi contatto con il fuoco.

Le squadre sono dunque formate da religiosi del luogo, solitamente divise nel classico scontro "giovani contro vecchi". Non esiste un numero definito di giocatori in campo, può variare da un calcetto tipico (5vs5), ad un allargato 11 contro 11 (molto raro), tutto dipende dalla disponibilità d'atleti.
I palloni di cuoio sono rimpiazzati, come prevedibile, da gusci di cocco immersi nel kerosene: c'è chi dice vengano fatti impregnare per settimane, chi per alcune ore. Conclusi gli ultimi canti prepartita, le squadre si dispongono in un campo minuziosamente preparato nelle sue peculiari particolarità: dalle porte in legno costruite a mano, al centrocampo disegnato e raffigurante simboli religiosi.

Un'uscita in presa bassa
Centinaia di persone affollano i margini del sabbioso teatro di gioco: tutti pronti ad osservare, meravigliati, la bollente sfera che fende l'aria; tutti ipnotizzati dall'infuocato cocco che sfugge, per qualche minuto, alla scura notte indonesiana, come una piccola stella cadente.

Alla pianta del piede i più temerari associano anche l'uso del dorso o del collo pieno; altri non temono il duello aereo, cercando la sfera con la testa. Ai portieri va poi il delicato compito di bloccare, a mani nude, proiettili infiammati.

Così si accende il Sepak Bola Api, così sgorga il sudore dai corpi accaldati di religiosi calciatori.
Una notte indonesiana come tante, una notte di football singolare e rovente.

Il Calcio che ci piace, alla fine, è proprio questo: incontaminato rito dal morbido sapore fiabesco.
Un Calcio mistico, un Calcio doloroso, un Calcio infuocato ed arso da quella fiamma ancestrale sempre più difficile d'alimentare.





domenica 27 dicembre 2015

ALI D'ANGELO, FIUMI D'IRLANDA: STORIA D'UN DRUIDO SENZA NAZIONE

di Riccardo Corradini

Ireland di spalle, con l'evidente tatuaggio


Che uomo e natura siano legati da un vincolo indissolubile è cosa nota a tutti dalle notte dei tempi. Prima Lucrezio nel "De Rerum Natura", poi San Francesco d’Assisi nel "Cantico di Frate Sole", hanno incanalato in colossali opere letterarie quell’interesse che l’uomo nutre verso l'intrinseco legame con il  mondo che lo circonda.

Non ci si stupisce, dunque, nell’apprendere che la città natale di Stephen Ireland sia Cork, florida realtà portuale situata nel Sud dell’Irlanda, attraversata e recisa in due parti dal fiume Lee. Due mondi, due universi così affini, eppure così separati: esattamente come Ireland e la Nazionale di calcio irlandese. Ma facciamo un passo indietro.

Lo Stephen Ireland calciatore muove i primi passi nel Cobh Ramblers Football Club, società nota per aver allevato al proprio capezzale Roy Keane e per essersi guadagnata negli anni l’etichetta di rivale del ben più blasonato Cork City Football Club. 


La famosa esultanza contro il Sunderland
Qui Ireland propone fin da subito il suo calcio: un modo di trattare il pallone che è tipico di un iniziato, una visione di gioco ed una tecnica che appartengono alle più alte volte celesti. 
Le qualità del giovane destano l’interesse di molti club britannici, ma la sindrome di Osgood-Schlatter (processo degenerativo a carico della tuberosità tibiale) di cui soffre Stephen in età adolescenziale, ne scoraggia più volte l’effettivo trasferimento. 

Sarà il Manchester City a prendere coraggio e ad azzardare con il giovane talento irlandese, tesserandolo nel 2001 e godendone le qualità e il potenziale fino al 2010.
In queste stagioni, fino al trasferimento all’Aston Villa nell’ambito dell’affare Milner, Ireland incanta i Citizens in un contesto finanziario (e non solo) molto diverso da quello che conosciamo oggi: guadagnando il goliardico soprannome di Superman grazie ad una curiosa esultanza, con le mutande del noto supereroe  esposte verso la gradinata dopo un gol al Sunderland.

Sono anni fondamentali per la carriera del talento irlandese e, come da previsioni, arriva anche la convocazione in Nazionale. 
Nonostante le controversie che contraddistinguono il rapporto tra Ireland e la Federazione già dalle rappresentative giovanili, e nonostante i dissapori maturati quasi immediatamente con il Commissario Tecnico Brian Kerr, il popolo irlandese resta consapevole del fatto che i Boys in Green non possano fare a meno del Superman di Cork.

Così, sotto la gestione del nuovo CT Staunton, Ireland diventa una figura inamovibile, trascinando i compagni nella fondamentale vittoria contro San Marino e, soprattutto, nel sentito derby con il  Galles. Stephen sul prato verde è un fattore determinante: argina e straripa a fasi alterne, proprio come il suo fiume Lee. 

Ireland con la sua Nazionale
Nel settembre del 2007, però, il fiume Ireland altera improvvisamente il suo corso, sconvolgendo un paesaggio, anzi, una vita che non tornerà più come prima.
Succede tutto all'improvviso, nel cuore del ritiro irlandese, con l'irruzione d'uno squillo di telefono alla vigilia della delicata sfida con la Repubblica Ceca. 
Alla cornetta c'è la fidanzata del centrocampista dalla schiena alata: "Steph, tua nonna è morta, corri a casa!”In realtà Stephen sa che non è vero: lo sa anche mister Staunton,  avvisato da chissà quali spie segrete, che però lo lascia ugualmente tornare a casa con un jet privato. 

Il problema, purtroppo, è che a saperlo è anche anche la stampa.

Ireland va nel panico: “La verità è che è morta mia nonna paterna”; “Scusate, vi ho mentito: è morta la seconda moglie di mio nonno”. Tutto falso: i giornali lo fanno a pezzi, Guardian in primis, Ferguson lo addita come “stupido”.

Poco dopo lo stesso Ireland ammette la verità: la sua ragazza aveva avuto un aborto spontaneo, per questo era corso a casa in fretta e furia fabbricando, però, un'altra scusa. 

Perché non lo hai detto subito Steph? Credi che la materna Irlanda non ti avrebbe capito? Pensi che i tifosi che ti idolatrano non ti sarebbero stati accanto? Echeggiano insaziabili le domande dalle redazioni dei tabloid, dai pub di Dublino, dalle case di Cork... 
Troppo tardi, la Federazione non prende provvedimenti per l'insensata bugia, ma il dio football sì: Repubblica Ceca-Irlanda 1-0, i ragazzi in verde non parteciperanno all’Europeo 2008.

In maglia Stoke
Da questo momento il rapporto tra Ireland e la sua Nazionale ricorda tanto l'assurda ed inconcludente attesa di "Waiting for Godot"opera teatrale del (guarda un po') irlandese  Samuel Beckett: una serie infinita di speranze disilluse, di sogni disattesi. 

Stephen non è più ritornato. 

Inutili gli interventi di TrapattoniLiam Brady, del mediatore straordinario Shay Given: quella di Ireland resta una delle vicende più struggenti ed enigmatiche della storia del calcio irlandese e non solo. 

“Non voglio mettergli pressione, ma mi piacerebbe moltissimo vederlo giocare ai Mondiali”: suggella così questa vicenda, con malinconico rispetto, la speranzosa voce del padre di Ireland intervistato una manciata d'anni or sono.

Ireland, dopo una deludente parabola tra Aston Villa e Newcastle, oggi a 29 anni sta vivendo una stagione travagliata, causa infortuni e concorrenza d'alto livello nello Stoke  City dei vari Bojan, Shaqiri ed Arnautovic. Della maglia marchiata Eire nemmeno l'ombra.

Il fiume Lee divide la città di Cork in due parti; il fiume Ireland separa lo Stephen calciatore dallo Stephen uomo: troppo onesto per mentire come si deve o, forse, troppo debole per sopportare il peso d'una verità mai completamente svelata.

Non tutti sanno che il fiume Lee, prima di gettarsi nel mare celtico, si dirama in due bracci creando al centro una piccola isoletta, culla del centro storico di Cork: primo insediamento urbano in epoca antica. È proprio lì che l'Irlanda aspetta, idealmente, il figlio prediletto di questa generazione calcistica: lì dove il fiume unisce ciò che ha diviso. 


Un popolo intero assiepato su quell’isolotto: pronto ad ululare il nome della propria nazione in festa, pronto a gridare il cognome del calvo druido vestito nuovamente di verde.