di Gianmarco Pacione
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Scorcio delle rovine di Damasco durante una partitella tra bambini |
Poc-poc-poc. Le macerie respirano, vibrano. Bashar è seduto,
solo. Lancia scanditamente parti di soffitto, lo capisce dal colore dell’intonaco.
La polvere offusca la vista, crea il peggiore dei miraggi.
Centro del distretto di al-Mezzeh, Damasco, Siria. I colpi vicini non
straniscono Bashar. Ha poco più di dodici anni, abbandonato ai suoi pensieri
come ai cenci che veste, per inerzia, da mesi ormai.
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Tre ragazzini siriani palleggiano |
Guerra civile, guerra tremenda. La distesa di detriti è una
compatta, funerea coperta per Haytam e Samir. Erano i suoi due migliori amici. Erano.
Sirene, urla, tutto lontanamente vicino.
Bashar è scalzo, poggia attivo i piedi su una vecchia
pelota, è l’unico ricordo rimasto di Haytam e Samir. È rotolata fuori quasi per
caso, quasi per volontà altrui, dal grottesco tonfo di tonnellate di cemento.
Gli sporchi piedi continuano ad accarezzare il delicato
cuoio.
Al-Mezzeh è una zona caldissima, proteste anti-governative
alternate a prese di forza dell’esercito, attentati all’aeroporto militare, stragi
alla moschea.
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Immagine di Nuri Ibish |
Il padre del dodicenne è un ribelle, la madre si limita a
piangere. Sente le sue lacrime anche in questo istante Bashar, le sente sulla
pelle, sulla fronte, sta guardando in alto. “Mamma non piangere, fammi stare
qui a giocare ancora un po’ con i miei amici!”. La pioggia inizia a scendere
commossa dal cielo di Damasco.
Corre Bashar tra le vie marchiate dai suoi doppi passi, dai
sorrisi di bambini dagli occhi colmi di futbol e sparatorie, di vita e morte. Marchi
delebili.
La palla si ferma, controllata, docile, sotto un muro
sporgente, pericolante. Una targa, decrepita, recita sicura: “Nel 1920, qui, è
nato il calcio in Siria”.
Bashar conosce bene la storia di quella partita. Per anni si
è affacciato dal balcone immaginando l’epica scena, l’odore spasmodico ed
eccitante della ricerca del gol, l’affannoso ululare di tifosi novizi ma
pronti. La immaginava dipingendo immagini tra le parole di suo padre; quella
era l’unica storia che avrebbe ascoltato per ore, per anni. “Se tutti i
politici fossero come Nuri Ibish, la nostra Siria sarebbe un grande Paese.”, si
sentiva sempre dire.
Nuri Ibish, la sua foto appena sotto la targa, ingiallita, umilmente
fiera in questo deserto umano. Bashar imita la posa, marionetta in un
teatro deserto, carica il petto superbo.
Ricco proprietario terriero, politico affermato della prima
metà del ‘900, ministro del Gabinetto, pioniere unico del calcio siriano. Apprese
regole, fascino e trascendentale armonia durante un viaggio nell’Inghilterra
della Grande Guerra. Immediatamente corse a Damasco. Nel 1919 convinse le
truppe inglesi ad allenare i suoi compaesani: non alla vita da trincea o a come
centrare il bersaglio con maggiore costanza, semplicemente alla magica arte del
football.
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Il ministro Ibish, secondo da sinistra |
Nel 1920 la prima partita, in quello spiazzo su cui ora sta pellegrinando un bambino assente; la vittoria degli artigiani di casa sulle truppe inglesi per 4 a 2, tra
migliaia di siriani freddati calorosamente da un Cupido con la sciarpa al collo, con un due aste issato, con una palla impazzita tra piedi burberi
ed incoscienti.
Una città unita, uno Stato
innamorato irreversibilmente.
Un re, Faysal I, talmente fiero dei giocatori
siriani, da regalare ad ognuno di essi un orologio d’oro.
Luccichii sotto un maglione, distante pochi passi da Bashar.
Ancora i piedi sporchi a divertire la pelota, a sollevare l’anima da questa
nebbia irregolarmente illusoria, candida e compatta, da quest’etereo terrore mai domo,
ammorbante, ormai banale.
Bashar muove il maglione di qualche centimetro, il luccichio
aumenta, trascinando con sé, di forza, il battito del cuore. Un orologio d’oro
del re Faysal, magari proprio quello di Nuri Ibish.
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Un ribelle supera armato un prato verde |
Un proiettile. Un crudo,
freddo, ghignante proiettile cullato dalla lana grezza dello scuro maglione.
Bashar carica il destro, il piede spoglio, come tutto il resto. Colpisce la targa, unica luce in
queste tenebre. Le rovine vacillano. Mette il proiettile in tasca, abbandona il
cuoio nella fanghiglia agonizzante.
Ha scelto, combatterà al fianco di suo padre per Haytam, per
Samir, per diventare un giorno come Nuri Ibish e riportare la pace nel suo
distretto, nella sua città, nel suo Paese.
Poco distante, proprio dove quella maledetta autobomba ha portato via la sua amata madre, la sua sicura casa, il neo combattente osserva un gruppo di bambini: hanno appena ricominciato a correre ed emozionarsi palla al piede.
Gli spari sibilano, fischietti non retribuiti, incriticabili.
Il cielo è sereno ora, il sole asciuga il volto rigato di Bashar,
di tutta al-Mezzeh.
“Tranquilla mamma, al limite piangeremo insieme.”.