di Gianmarco Pacione
giovedì 26 marzo 2015
martedì 17 marzo 2015
KOP: DOVE I CORPI DIVENTANO ONDE
di Gianmarco Pacione (per seguirci su Fb clicca qui)
"La Spion Kop Hill, ecco a cosa somiglia". Un viaggio di migliaia di chilometri, fino in terra sudafricana: là, su quell'esotica collina, dove il verde si era tinto di rosso appena sei anni prima. Stavano a terra corpi e corpi di britannici, trucidati dall'esiguo esercito boero.
Manor Ground, 22-9-1906: la prima Kop |
Esistono luoghi dove i corpi diventano onde, dove i volti paiono puntini d'un quadro divisionista.
Kop li chiamano, o meglio, li continuano a chiamare.
Quel termine burbero, dal suono poco elegante: involontaria onomatopea di urla e strepitii. Quelle tre lettere che ci spediscono dritti ad Anfield Road, nella zona più rossa di Liverpool.
Spion Kop Hill, Sud Africa |
Bisogna fare un passo indietro, però, per bussare alle origini della leggenda: anno 1904, un giornalista londinese divora tabacco sugli spalti del Manor Ground, casa del Woolwich Arsenal (padre degli odierni Gunners). Il cronista, seguendo l'infinita traiettoria d'uno stizzito rilancio, ferma gli occhi su un nuovo settore dello stadio. Oscillanti, sotto migliaia di gonfi cappelli, uomini d'ogni provenienza assiepano invisibili gradoni.
Un'azione, un ululato; un fischio, una pioggia di braccia alzate.
Impossibile non muovere la penna, impossibile non pensare ad un giusto paragone per quello scroscio di piccoli occhi brillanti. Un monte d'emozioni in continua ebollizione, sempre più teso alla ricerca delle nuvole.
L'intuizione arriva un'istante dopo, osservando quegli stessi corpi contorcersi, quasi coreograficamente, dopo una rete subita.
Kop di Anfield, 1970 |
"La Spion Kop Hill, ecco a cosa somiglia". Un viaggio di migliaia di chilometri, fino in terra sudafricana: là, su quell'esotica collina, dove il verde si era tinto di rosso appena sei anni prima. Stavano a terra corpi e corpi di britannici, trucidati dall'esiguo esercito boero.
Strana associazione tra dolore e magia; tra un colosso naturale, immutabile, ed un puzzle umano, assemblato minuziosamente.
Denominatore comune è la sofferenza: orgasmica, tremenda, dolce, amara sofferenza.
Dal giovane Arsenal ad un Anfield in costruzione, dal 1904 al 1906.
"Questo enorme settore, simile ad un muro, deve essere chiamato Spion Kop". Tuona così, nelle colonne del Liverpool Echo, il giornalista Ernest Edwards. Usando un'espressione non originale, già, ma molto significativa per tutti i Reds: la maggior parte del sangue versato nella Seconda Guerra Boera, difatti, era di giovani fratelli ed amici, figli del Merseyside.
Dopo l'ufficializzazione del nome, nel 1928 (anno in cui venne costruito il tetto), la Spion Kop dei liverpudlians divenne simbolo dei grandi giganti che, inevitabilmente, finirono per incorniciare l'età dorata del football.
L'Aston Villa gioca, Holte End assiste |
Holte End di Villa Park, con i suoi 30mila ed oltre posti disponibili, appare ancora oggi, nelle mitiche foto, una sorta di scogliera granitica. A picco sul prato verde, con tutti quei corpi arrampicati uno sull'altro, privi di vertigini ed identità.
Appaiato, per vastità ed intensità canora, il South Bank del Molineux, casa dei lupi di Wolverhampton. Una lunga salita vestita d'arancio, pronta a confondersi con il sole, specialmente nei nebbiosi fine settimana delle West Midlands.
Viene poi Sheffield, con la Spion Kop di Hillsborough ed il suo strano destino. A metà degli anni '80, il settore più caldo degli Owls, vantava 22mila spazi a disposizione ed un tetto sopra la testa: cifra tale da premiarla curva coperta più grande d'Europa. Una sterminata gittata di cemento, in febbricitante attesa d'essere riempita da impazienti calpestii.
Il 15 aprile '89, però, quei passi diventarono troppi e troppo pesanti. Tanto pesanti da lasciarsi alle spalle 96 morti e 766 feriti. Da questo lutto l'origine, o la fine, a seconda dei punti di vista, delle nuove Kop: messe in sicurezza, con soli posti a sedere e con pesanti riduzioni alle capacità contenitive.
Eppure l'anima Kop non è svanita in quell'89: resiste, ostinatamente, ancora oggi. La si vede, la si percepisce, tra quei corpi che seduti proprio non ci riescono a stare, tra quelle mani che ruotano creando i gesti più offensivi e canzonatori, tra quegli occhi che, come cento e più anni fa, brillano emozionati alla vista del dio futbol.
Hillsborough e la Kop, quando ancora era scoperta |
lunedì 16 marzo 2015
APOLOGIA DI UN FETICISMO: LE RETI DELLE PORTE DA CALCIO
di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook clicca QUI)
So per certo che esistiamo. Da Nord a Sud, ad ogni latitudine, ad ogni longitudine. Ovunque. Una specie di congregazione su scala mondiale, senza statuto, senza organigramma, senza ruoli o interessi. Egualitarismo allo stato puro, con sfumature che coprono tutto lo spettro della luce, tutti uguali e ognuno diverso dall'altro. Feticisti. Siamo feticisti da una vita, ma una specie di feticisti impossibile da imbrigliare in qualche categoria da sito porno. Noi siamo i feticisti del dettaglio estremo, ultimo, marginale eppure così concreto, reale, inesorabile. Da chi segue il calcio professionistico fino all'ultimo patito del Subbuteo.
Ossessionati dalle reti di una porta quasi quanto dalle gambe delle donne. Perché un gol è bello per davvero se e solo se la palla si insacca come vogliamo noi. Da bambino i gol dell'Arsenal e dell'Ajax erano sempre i più belli. Ed il motivo è semplice: ad Highbury e all'Amsterdam ArenA c'erano le reti più belle del mondo. Tese, eleganti, esaltanti. Con i paletti di sostegno pronti a far impennare i tiri rasoterra. Un orgasmo infinitesimale che valeva tutta l'attesa di una settimana. E poi quando i microfoni riuscivano anche a cogliere i rumori... ah, quella sì che era libido.
In Italia abbiamo avuto per molti anni reti molli e spente che ricordavano lenzuola appese ad asciugare. Esistevano comunque le piacevoli eccezioni: il Delle Alpi e Udine, ad esempio, che a lungo ha ricordato il modello tedesco. Perché di modelli, come in una scienza, è giusto parlare.
So per certo che esistiamo. Da Nord a Sud, ad ogni latitudine, ad ogni longitudine. Ovunque. Una specie di congregazione su scala mondiale, senza statuto, senza organigramma, senza ruoli o interessi. Egualitarismo allo stato puro, con sfumature che coprono tutto lo spettro della luce, tutti uguali e ognuno diverso dall'altro. Feticisti. Siamo feticisti da una vita, ma una specie di feticisti impossibile da imbrigliare in qualche categoria da sito porno. Noi siamo i feticisti del dettaglio estremo, ultimo, marginale eppure così concreto, reale, inesorabile. Da chi segue il calcio professionistico fino all'ultimo patito del Subbuteo.
Palla nel sacco al Louis II di Monaco. |
Una porta inglese. |
Le reti delle porte da calcio sono un fatto di cultura nazionale: l'eleganza inglese, la pittoresca passione per i colori delle squadre francesi, la rigida durezza delle porte della Bundesliga, talmente tirate e fitte che parevano gabbie d'acciaio. E della Spagna è il caso almeno di citare l'esempio di Saragozza: reti così lunghe e profonde che per toccarle con la palla dovevi per forza tirare una cannonata. Iniziavano a La Romareda e finivano a Pamplona. Un vezzo latino col suo perché.
A me che uno stadio sia bello e funzionale al business che circonda il mondo del calcio non frega un cazzo. La muffa e il grigio rendono certi luoghi oasi magiche entro cui respirare l'odore del passato. Non mi interessano luccichii e ristoranti, cheerleader e Ligabue dagli altoparlanti durante il riscaldamento. Voglio soltanto perdermi nella confusa dinamica d'un gol, in attesa del momento in cui la palla abbraccia il sacco. Sono un feticista delle reti, declinazione dell'amore per l'estetica del gioco. Che, per gente come noi, sta nelle cose a margine, quelle che non attirano soldi e sponsor, ma ti fanno semplicemente stare bene. Senza una spiegazione logica.
La Romareda. |
giovedì 12 marzo 2015
LA BESTEMMIA RUSSA DI ALEKSANDR KOKORIN
L'edicola di "San" Diego: tra le reliquie un capello ed un santino autografato |
Dovrebbe fare due passi, Aleksandr Kokorin, nel centro di Napoli. Dovrebbe accarezzare, con le sue Nike fluorescenti, le pietre di Piazzetta Nilo: quel lembo magico che Maurizio De Giovanni, nella sua anatomica topografia, definisce “il cuore di Napoli”.
Proprio lì, a pochi guizzi dialettali di distanza, s’innalzerebbe davanti ai suoi occhi un’edicola votiva.
Qualche tratto azzurro, un santino incorniciato ed una reliquia, intima e carica di suggestione: il capello di Diego Armando Maradona.
Chissà, Aleksandr Kokorin ripenserebbe alle sue parole. “Maradona, non sapevo avesse giocato qui a Napoli”. Si renderebbe conto della disastrosa uscita, di quella frase letale, velenosa, proferita quasi per scherzo nella sala stampa del San Paolo: là, nel tempio di cui Diego possiede le chiavi.
Maradona al Luzhniki di Mosca, 1990 |
Magari, il ventitreenne attaccante russo s’informerebbe riguardo quel ricciolo sudamericano, con il 10 dipinto nel mancino. Perché non può essere una scusa la tardiva nascita, quell’aprire gli occhi il 19 marzo 1991, appena due giorni dopo l’ultima partita del Pibe de Oro nel nostro Stivale.
Forse, qualche stizzito Gennaro di passaggio, gli racconterebbe anche della volta in cui Dieghito aveva raggiunto Mosca, a bordo d’un aereo privato pagato dal patron Ferlaino, per il solo gusto di visitare la Piazza Rossa. Succedeva 23 anni fa, quando Kokorin emetteva il suo primo vagito, quando Diego non riusciva a distinguere la malinconica polvere bianca dalla fredda neve russa.
Chissà, magari, forse.
Il Gennaro di passaggio sta aspettando un giovane russo. Di lui dicono assomigli a Justin Bieber, guidi auto da Fast and Furious e si faccia foto con spogliarelliste. Stasera vorrebbe zittire il San Paolo segnando per la sua Dinamo Mosca.
“Maradona, non sapevo avesse giocato qui”, piangerà sangue, oggi, l’edicola di Piazzetta Nilo: a Napoli non si parlerà di miracolo, ma di blasfemia.
Kokorin abbracciato a spogliarelliste connazionali |
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