Ho incontrato un pallone romeno, era disperso alle porte del campo d’una qualunque periferia, ammaccato da neri scarpini di basso livello e poi abbandonato.
Ogni graffio, ogni bernoccolo, tutto mi raccontava del suo passato.
"Ho visto tanti portieri, sai? -mi diceva silenzioso- Il tozzo, lo sproloquiatore, l’assassino. Ma una sola volta mi è capitato d’ascoltare un monologo tra i pali.
Ero nella mia terra, a pochi passi dalle grandi fabbriche di Bucarest, quelle che sembrano sempre stanche di funzionare. Il prato era incolore, reso ancor più grigio da spente luci e da spalti arrugginiti. Un portiere mi chiamava a sé, mi stringeva con una mano sola. Non capivo, non mi era mai successo".
Una parola, una parata, una parola, un guantone
Moraru in Nazionale |
L’amore a prima vista, gli allenamenti giorno e notte…mi ha raccontato che per lui ogni intervento era diverso: a Mihailescu, difatti, mancava un braccio dalla nascita.
Mentre mi parlava, la sua espressione fiera, fissa sul terriccio posato disordinatamente a terra, indagava il panorama delle offese subite, delle prese in giro di avversari e pubblico.
La sua mente non dimenticava il regime comunista, principale causa della sua iniziale inattività: con quell’handicap non si poteva giocare, così stabilivano le brutali istituzioni romene.
Nel suo sorriso, appena abbozzato, c’erano però gli anni successivi al 1989: quelli di gioie e parate, quelli di categorie sempre più alte e rigori deviati.
Mihailescu aveva toccato il paradiso del calcio semiprofessionistico, l’aveva fatto con una sola mano. Aveva imparato a rilanciare più lontano d’un normale portiere, aveva affinato il movimento di piedi, aveva ingigantito la sua personalità, arrivando a controllare l’intero campo con la sua voce".
Una parola, una parata, una parola, un guantone
Tudorel abbracciato a Gheorghe Hagi |
A chi è mai capitato di vedere un pallone commosso? La suggestione del football, in fondo, può anche questo.
Così ho raccolto quel pallone disperso alle porte del campo d’una qualunque periferia e ci siamo incamminati verso la terra di Hagi e dello Steaua.
Siamo arrivati in quello che sembrava un tempio dismesso: sul verde del campo, disegnava bianche linee sconnesse un vecchio dai jeans sgualciti. Una rossiccia gru metallica, alta ed insicura, sbirciava a pochi metri.
Il pallone non aveva dimenticato quel luogo. “Senti!”, sembrava dirmi. In rima arrivavano dei suoni dalla metà campo più distante; pareva una melodia composta al momento, suonata da una sola mano. “È Mihailescu”.
Mi sono seduto ed ho ascoltato quel raro monologo. Ho ammirato una strana compagine di quarta divisione, diretta da un portiere d’ormai 48 anni.
Una squadra chiamata Fratia, Fratellanza: unica società della nazione fondata sui principi d’uguaglianza ed indiscriminazione, unica società della nazione ad avere un allenatore di colore, arrivato dal Congo, quasi per caso.
“Non poteva che essere questa la casa per Mihailescu, non poteva che urlare qui, a squarciagola, i suoi monologhi”, così mi ha detto il pallone che ho lasciato, di nuovo, alle porte del campo d’una qualunque periferia.
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