L'imprevedibilità, l'improvvisazione,
la creativa anarchia. Oppure i muscoli, l'organizzazione, la
metodicità. Calcio sudamericano e calcio europeo, una dicotomia in
continuo contrasto, in continua relazione. Riflettere sulle
differenze fra i due modi di interpretare il gioco del pallone vuol
dire andare oltre i superficiali luoghi comuni, vuol dire andare
oltre la globalizzazione omologatrice che ha inevitabilmente tentato
di mescolare i due mondi a favore dei club più ricchi. Comprendere
il perché le due scuole siano così agli antipodi non può
prescindere dall'analisi attenta dell'educazione, della cultura,
della storia dei paesi o delle regioni prese in considerazione.
Secondo puristi, benpensanti e scettici il calcio è soltanto un
gioco.
Sappiamo quanto ciò sia falso. Il calcio è un intreccio di
fattori razionali ed irrazionali, di storia, politica, economia. E'
quanto di più complesso si possa pensare, poiché tutti questi mondi
sono tenuti in tensione da una sfera che rotola e che,
inesorabilmente, può cambiare le sorti di una stagione, di un anno,
di una vita. Il calcio non è mai solo calcio ed è proprio da qui
che nasce la differenza fra il mondo sudamericano e quello europeo.
Nascere povero e crescere per strada è evidentemente diverso dal
nascere in un paese occidentale, dove il capitalismo è un sano
fattore di crescita e ha intaccato anche lo sport e dove la vera virtù è il successo, l'arrivare
alla meta. Essere un apprendista campione in Argentina è,
fortunatamente, totalmente l'opposto che esserlo in Germania. C'è
chi ha deciso di privilegiare il talento, la cristallina purezza
della fantasia, l'invenzione, il capriccio, l'impulsiva serpentina. E
chi, invece, ha preferito investire sulle strutture, sull'atletismo,
sulla forza. Le categorie sono rigide, e nella realtà non esistono
in maniera così statica, ma servono a rendere chiaro su cosa si
fondi la strutturale differenza fra i due poli opposti. La Germania
stessa, la Spagna, il Portogallo, l'Italia sono nazioni che, ora o in
passato, hanno saputo improntare le proprie politiche in un'ottica
meno europea e più latina. Ma sono state epoche fortunate, nidiate
di fenomeni, progetti ad hoc. Si è trattato di destino o, in molti
casi, di semplice pianificazione. Di ibridazione: combinare i
migliori punti di forza di una scuola con i più produttivi
dell'altra. Il calcio diventa un'azienda, qui. Dall'altra parte,
invece, nonostante vi sia chi ha tentato e tenta di europeizzare il
futbol (o futebol, in base alle latitudini geografiche) il calcio è
ancora uno spirito libero. Il calcio è espressione, una via, un
sogno. Non è parte di un settore economico, non è un campo
d'addestramento, non è marketing. I grandi sponsor, certo, hanno
invaso La Paz, Buenos Aires, Rio, Medellin ma... non basta. Perché
la differenza sostanziale parte dalla strada. Dalla strada in cui si
gioca con un pallone che ha poco a che vedere con quello con cui
gioca il Botafogo la domenica, dalla strada in cui ci si incammina
per andare a seguire la propria squadra. La strada come luogo di
aggregazione, crescita, evasione. Non il centro sportivo attrezzato,
non la palestra. La strada:
la terra, il cemento, i sassi. Un'eterna
infanzia, di generazione in generazione. Crescere cercando di dribblarne il più possibile, crescere
cercando di incantare, non crescere per fare più chilometri degli
altri. Il calcio come una splendida pittura astratta, non come solido cemento armato. Diventare grandi sui campi spelacchiati
lasciandosi guidare da folli deliri di tecnica più che
dall'ossessione del risultato, inteso sia come vittoria o sconfitta,
sia come progetto di crescita individuale. E ancora vivere lo stadio
come il centro del mondo, viverlo senza fermarsi, viverlo senza
paura: in Europa gli stadi sono diventati teatri o, peggio ancora,
giganti abbandonati. In Sudamerica no: lo stadio è la logica
prosecuzione della strada. Dal luogo in cui si è sognato invano di
diventare il nuovo Maradona al luogo in cui si finisce per sostenere
Chavez o Paredes. E pazienza se a Diego non somigliano nemmeno un po'. Si
canta, dopo aver ballato “pelota al pie” per anni e anni. Si vive
il pallone senza tirarsi indietro mai, senza le gabbie europee che
hanno aumentato lo spessore delle proprie sbarre con il passare degli
anni. Come biasimare chi, venendo in Europa carico di belle speranze,
se ne torna mestamente in Patria dopo pochi mesi? Non te l'avevano spiegato, amico, che qui a pallone non si gioca più col sorriso . E'
così da un pezzo, ormai. O ti abitui che ogni tuo passaggio
sbagliato rischia di voler dire di più di un semplice passaggio
sbagliato oppure te ne stai fuori a guardare i
professionisti
giocare. Gli europei, gli africani, gli asiatici e certi latinoamericani. Atipici,
presunti o addirittura pentiti. Ammirare la scuola sudamericana è frustrante, sia quando
sei un ragazzino e giochi, sia quando cresci e osservi. Rimane
un'amara considerazione: forse la mia è stata l'ultima
generazione potenzialmente e naturalmente non-europea. I parchi, i
giardini, i parcheggi: ci abbiamo sudato tanto, poi si sono svuotati. Ora anche gli stadi. Pian piano, in silenzio. Il
nostro Sudamerica è scomparso.
Gian Maria Campedelli
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