Un giovane Streltsov |
Tic-tac. Tic-tac. Echeggia, monotono, il perpetuo richiamo dell’ascia che fende l’aria per poi tornare a contatto con il tronco ghiacciato. Ricorrenza inattaccabile. Il legno scalfito, le braccia stanche: è l'inverno del 1963.
Tic-tac. Tic-tac. Il tempo scorre, inesorabile. Gli occhi restano fissi a terra. La neve scende, fitta, a pochi metri di distanza, appare come la più amara delle visioni ad Eduard Streltsov; lo sguardo scappa per un istante verso quella bianca coltre, poi, immediatamente, torna a sondare la corteccia.
Tic-tac. Tic-tac. I piedi che si muovono, obbligati, congelati. Come i ricordi. Il magico dialogo tra la palla e quegli scarpini neri che non smetteva mai di lucidare, intonati perfettamente all’enorme T sul suo cuore. Il passato che riaffiora giorno dopo giorno, ora dopo ora, istante dopo istante: Eduard è al quinto anno di lavoro forzato in un gulag siberiano; Eduard è più che mai lontano dalla civiltà, lontano da Mosca, lontano dal pallone, lontano da se stesso.