Non finirò mai di ripeterlo: il calcio
è magia perché è tutto fuorché una palla che rotola. E',
nelle sue infinite declinazioni e sfaccettature, come un enorme libro pieno di storie, storielle e storiacce di ogni genere: dal
romanzo di formazione al fantastico, dal giallo all'umoristico. Una
di queste storie prende in vita in Italia, a cavallo fra la seconda
metà degli anni novanta e l'inizio del nuovo millennio.
L'insospettabile protagonista è un siciliano di Alcamo trapiantato a
Milano, un ometto alto un metro e settantadue con una grande passione
per il calcio. Le sue giornate le divide tra un allenamento e il
bancone del bar dove lavora. Il suo nome è Antonino Asta, e questa è
la sua storia.
Antonino Asta in maglia granata, stagione 2001-2002 (foto Corriere dello Sport) |
Antonino detto Tonino da giovane non è
un fenomeno. Non ha nel curriculum, come molti suoi futuri colleghi,
esperienze in settori giovanili di grandi club. E' uno fra i tanti,
non un brocco, certo, ma nemmeno un fuoriclasse. Riesce comunque a
farsi largo tra decine di cross, dribbling e chilometri macinati su
campetti fangosi o polverosi immersi nella nebbiosa provincia
lombarda. Una scalata che lo porta dalla prima categoria fino alla
promozione, dalla promozione alle prime esperienze da professionista.
Tutto in quattro anni. Quattro anni possono essere tanti o pochi,
dipende dal punto di vista dal quale si guardano i fatti. Sono pochi
se si pensa che in quattro anni Antonino è passato da un campionato
provinciale al professionismo, sono tanti, invece, se si pensa che
Antonino quei traguardi se li è guadagnati con una ruvida fatica
operaia. Sgomitando con spigolosi terzini che durante la settimana
erano meccanici o studenti di legge all'università, cercando il
cross decisivo da appoggiare sulla testa di qualche lungagnone pigro
con la pancia da birra e salsicce, andando agli allenamenti,
puntuale ogni volta, su campi gelidi poco illuminati, 'che una volta
finito tutto torni negli spogliatoi con la vista annebbiata e il mal
di testa. Niente vetrine giovanili prestigiose, niente erba
all'inglese, niente Torneo di Viareggio, niente sponsor o titoli
sulla Gazzetta. Niente: lavorare sodo, in campo e fuori, al bar di
famiglia, a testa bassa inseguendo i sogni sul filo del rasoio,
spinto dal talento gregario e affamato di chi è cresciuto sapendo di
dover sputare più sangue degli altri per emergere. Fin qui quella di
Tonino è la storia di quasi tutti noi. Respirare i campi di
provincia, giocare, sperare in una giornata fortunata, nel colpo
giusto. Andare il martedì e il giovedì con vento e acqua ad
allenarsi, rinunciare alle domeniche al mare o in montagna, cercare
di tener buona la fidanzata. Solo che Asta, a differenza nostra,
qualche asso nella manica da giocarsi ce l'aveva. Un po' per volontà
e un po' per destino. Il trampolino di lancio, per lui, è Saronno.
Ci rimane tre anni, dal ripescaggio in C2 alla promozione in C1. Si
afferma fra i professionisti, non è ancora la serie A, ma Antonino
ci sta lavorando. Il Monza si interessa a lui e si assicura le sue
prestazioni: si accendono i reattori, il piccolo siluro di Alcamo è
pronto a decollare. A Monza rimane due stagioni. E' sempre titolare,
gioca sessanta partite in campionato, segna sette gol e con i
brianzoli vince il campionato di C1 nel 1996-1997. A quel punto
qualcuno di importante comincia ad accorgersi di lui: Luigi Radice lo
segnala al Torino e proprio la società granata lo preleva dal Monza.
Asta comincia ad assaporare altri palcoscenici; la piazza granata è
calda, popolosa, la società ha fatto la storia del calcio italiano e
tenta di riportarsi nella massima serie. Quando arriva, ad
allenare il Toro c'è lo scozzese Souness: la stagione parte male e
Antonino non vede il campo. Poi il destino in veste finalmente
benevola cambierà il copione di quell'annata e, forse, di tutto ciò
che verrà in seguito: arriva Edy Reja, i granata cominciano a
vincere e Asta diventa titolare. Giocherà 28 partite segnando tre
gol. Dalla prima categoria alla serie B. Ma non è finita: sono
passati dieci anni dalle prime esperienze “fra i grandi” del
Corbetta e come una pepita che pian piano viene sgrezzata e lavorata,
Antonino comincia a brillare sul serio. La stagione successiva arriva
Mondonico e il Toro torna fra i grandi. E' serie A, e Asta la
conquista da protagonista, giocando trentatre partite. Sembra
un'ascesa senza fine, la favola perfetta. Alla prima stagione in
Serie A, però, Tonino non trova molto spazio. Durante il mercato
invernale la trentenne ala sgusciante viene ceduta al Napoli, in
serie B. Non demorde, da lottatore dignitoso, e trascina i partenopei
alla promozione. Sembra una consacrazione, invece non è ancora
giunto il momento del grande salto. Il Torino se lo aggiudica alle
buste (per una cifra piuttosto irrisoria: 105 milioni di lire) e, con
i granata, deve di nuovo riconquistare la serie A partendo dal
campionato cadetto. La squadra è un misto di giovani talentuosi e
giocatori esperti, ma all'inizio le cose non vanno. Il Toro si
ritrova ultimo e a Gigi Simoni subentra Camolese, allenatore della
primavera. Come con Souness e Reja, il destino sembra soffiare a
favore di Tonino. Camolese lo promuove capitano e la squadra passa
dall'ultimo posto al primo. E' di nuovo Serie A: Asta, l'uomo delle
promozioni, non tradisce. Ogni vittoria, ogni traguardo, ogni
successo condito con l'acido lattico, la saliva, il sangue,
l'inarrestabile corsa. Il gregario atipico, un motorino che macina la
fascia senza fermarsi mai. Non c'è tempo per prendere fiato, bisogna
faticare.
Asta in un derby con la Juventus, stagione 2001-2002, quella della sua consacrazione. (Foto: www.toroclub.it) |
Sta per iniziare la stagione della sua vera consacrazione:
il pubblico della Serie A si accorge del numero 13 di domenica in
domenica. Emerge fra i nomi altisonanti e i contratti miliardari, più
forte delle perplessità di chi lo reputa un azzardo troppo rischioso
per un campionato di livello mondiale come quello italiano. Antonino
sta bene in serie B, dove la corsa vince sulla qualità, dove viene
premiato chi soffre di più, dicono. Lui non parla, lavora, gioca
alla grande. Diventa un idolo per migliaia di appassionati, per
quelli che sanno cosa significa vivere per il pallone, nel bene e nel
male. Poi, d'improvviso, accade l'incredibile. Lippi, in vista dei
mondiali 2002, organizza un'amichevole a Catania con gli Stati Uniti.
Quando esce la lista dei convocati, tra i centrocampisti, c'è anche
il nome di Tonino. E' febbraio, il campionato è oltre la metà. Il
girone d'andata è stato al di sopra di ogni aspettativa, e mercoledì
13, a trentuno anni, Asta esordisce in nazionale. Ha il numero 7,
parte titolare. Gioca quarantacinque minuti. Quarantacinque minuti
che valgono una vita. Valgono ogni singolo sacrificio, ogni rinuncia,
ogni boccone amaro mandato giù in silenzio, digerito in palestra,
sul campo, con le scarpe da calcio ai piedi e lo sguardo concentrato.
I polmoni come un motore, il motore della rivalsa.
Da lì in poi il
fato beffardo deciderà di togliere ad Asta molto di quel che si era
guadagnato. Infortuni gravi ne pregiudicheranno il proseguo della
carriera, esperienze sfortunate, l'età che avanza, Asta si ritirerà
al termine della stagione 2003-2004: la sua squadra, il Palermo,
vincerà il campionato cadetto ma Asta non scenderà mai in campo a
causa della rottura dell'astragalo della caviglia destra. La sua
carriera termina così, con il retrogusto amaro tipico delle storie
in cui l'imponderabile fa il suo avaro ingresso in scena. Il finale,
però, non riesce a cancellare la magia di tutto ciò che è stato:
Tonino ha rappresentato per molti la speranza di riuscire a diventare
grandi partendo dal nulla, simbolo del calcio laborioso di provincia
che, ogni tanto, regala al firmamento del pallone qualche piccola,
luminosissima, cometa.
Gian Maria Campedelli (Profilo Facebook Autore)
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