di Gianmarco Pacione (per la quarta puntata clicca qui)
Primo piano del "Loquito" |
Abbandono un carnevale senza fine. Mi sento ubriaco di
sensazioni, di gioia, d’umanità. Sono felice, felice d’essere al fianco del
dottor Escobar, felice d’essere a La Paz in questo manicomio incredibile,
felice di tutto ciò che mi circonda.
Me lo sento, è proprio qui, stampato sul
mio volto: è il sorriso da scemo che mi accompagna da anni ormai; quell’espressione
ammaliata, involontariamente impostata. “Cosa fai? Guarda che ti entrano le
mosche in bocca così!”, come dimenticarsi della più classica frase del nonno,
come non ricordarsi del suo schiaffetto bonaria davanti ad ogni mio
boccheggio meravigliato. Bastava poco, pochissimo: una discesa d’Eriberto e
Manfredini, l’arte pagana di Riganò nel bucare la rete, l’esultanza di Mark
Bresciano.
Rivivo istantaneamente un passato bellissimo, sento il divano, sento la sala
colma d’amici e risate. Viaggio nel viaggio, vacanza nella vacanza.
Garcia in gol con il Tigres |
Sento il mio sorriso trasformarsi in una smorfia dubbiosa. Tre
orologi. Il colpo finale in questa battaglia ad un buon senso senza scopo né coordinate, arriva
senza preavviso, disorientante.
“Dottor Escobar, è ora?”.
Il mio compagno di viaggio pare
sereno, osserva il suo simil-Swatch e scandisce una risposta apparentemente
indecifrabile: “No Juan Pablo, stai tranquillo, non è ancora ora.”. L’uomo a
quel punto ributta l’occhio vicino agli aculei, sopra le sue mani. “Ah, non è
ancora ora…beh, io sono pronto, lo sa bene lei, ne parli in giro!”. Le sue gambe
restano immobili, come tronchi, i muscoli contratti, la schiena innaturale, il
collo teso. Irrequietezza, totale ed ignota irrequietezza.
Escobar mi porge la cartella, ho un flash, ancora il mio divano, ancora la bocca aperta. Juan Pablo Garcia, proprio quel mio primo acquisto nel “Campionato Master” del Bologna
dei miracoli, quando PES rappresentava tutta la mia vita virtuale (e non solo).
Strane le vie della conoscenza, specie se legate a joystick pestati ed amati con lo stesso ritmo.
Non ero però mai andato oltre quel “ES” che indicava le sue
caratteristiche d’esterno avanzato, non avevo mai approfondito le sue qualità tecniche al di fuori dei dati preconfigurati (e di dubbissima
veridicità) della Konami. Speciale, inventore, luminare della fascia. Doti a me
sconosciute, limitate al classico “quadrato+X”, seguite dalla scelta del “triangolo”
filtrante o del tiro a giro.
Juan Pablo durante un allenamento con la sua squadra attuale |
“Attende una chiamata, la possibilità di dimostrare
veramente quanto vale. Passa ogni singolo giorno osservando morbosamente gli
orologi, turnando lo sguardo. – confessa Escobar indicandomi il “Loquito” – Non
è un ragazzo come gli altri, ha sempre avuto una sicurezza incredibile nei
propri mezzi, ha sempre pensato di poter sfondare ai massimi livelli, d’arrivare
a dominare in Europa e con la maglia della nazionale messicana. Invece, invece
è sempre rimasto nel più duro e crudele degli anonimati. Ha vagabondato qua e
là, passando da una parte all’altra del confine tra USA e Mexico come una
pallina da tennis sopra la rete. Migrazioni strettamente legate a colpi di matto,
strascichi di vita tra mani addosso a direttori sportivi, dichiarazioni contro
giocatori stranieri, momenti di sovrappeso. In campo, però, un genio: tocchi
sublimi misti ad un’irripetibile carenza di banalità.”
“Dottor Escobar, c’è qualche novità?”.
“Nulla Juan Pablo, magari nel tardo pomeriggio…”. Ancora gli
orologi, ancora la nervosa attesa.
“Lui è nato nella periferia di Guadalajara, sai italiano, posto non
facilissimo. Ha cominciato nell’Atlas, era un creatore divino, completamente fuori
luogo, un predicatore nel deserto. Ruppe per un discorso economico, alzando
toni e mani. Poi USA, in maglia Chivas, alla disperata ricerca di visibilità e
continuità fisica.”.
“Dottor Escobar, mi scusi, ma sa proprio niente del PSV? Mi doveva
chiamare il direttore sportivo.”.
Escobar ignora l’ennesima richiesta, si atteggia come un
pusher sprovvisto di merce davanti ad un bisognoso cliente.
Garcia dopo l'operazione al ginocchio |
“Scusi, dottor Escobar, novità?”. Ancora.
Scuote la testa il medico. Juan Pablo passa nuovamente in
rassegna i suoi freddi cronometri, unici riferimenti vitali. Non mi ha degnato
d’un saluto, d’uno sguardo. È totalmente assorto nella sua brama di giocare, di
dimostrare. Vuole una carriera, vuole minuti, vuole la fama: non ha nulla, o
quasi.
“Vedi italiano, si, questo paziente è molto strano, forse il
più traumatizzante di tutti. Eppure c’è una cosa che si tiene ben stretto: la
consapevolezza d’essere un fenomeno. Lo sente, lo dimostra, lo emana. Un’inesauribile
forza di volontà, una speranza che mai potremmo portargli via.”.
“Ehi, dottor Escobar, chi è questo qui? Un osservatore?”.
“Non me la racconta giusta dottor Escobar, lo sapevo che
sarebbe venuto qualcuno a visionarmi dall’Italia, me lo sentivo. Per che
squadra lavora? Inter? Roma? Juventus? Mi basterebbe anche la Fiorentina!”.
Ride Juan Pablo, si alza in piedi ed inizia a scattare lungo
il corridoio.
“Guardi qui -sbuffa- sono in forma smagliante.”.
D’un tratto spunta un pallone, ed eccolo definire il
concetto di poesia in movimento.Suola che spalma amore su quella pelota, sospiri che accompagnano la teatrale esibizione.
“Quindi? Sono pronto? L’ho convinta?”.
Si toglie gli orologi dai polsi, quasi fosse un istante
sognato per una vita intera. Ricomincia a disegnare linee e forme degne del
miglior giocoliere. Ha abbandonato il tempo, non ha più bisogno del passato o
del futuro. La sua esistenza è racchiusa in questa possibilità. Lo guardo, noto
la forza di volontà di cui mi parlava Escobar. Vedo il bambino che si allenava
per ore nella polvere di Guadalajara, vedo l’uomo che per anni ha osservato una
cornetta attendendo lo squillo giusto.
Durante un'intervista |
Non riesco a dire altro. Poi la gioia. Un uomo colmato in tutte le sue lacune. Ho appena regalato felicità, più pazzo che mai, senza nemmeno riflettere. Ma a che prezzo? Che osservatore potrei mai essere? Eppure quel momento ripaga Juan Pablo di tutto, lo sento, sono emozionato, sono soddisfatto.
L’attimo che vale la vita. A poco conta un futuro di nuovo
al fianco d’orologi ed irrequietezza. Me ne vado così, promettendo un contratto
che mai potrò nemmeno immaginare di proporre. Me ne vado nelle vesti d’un
inventato osservatore, d’un appagato benefattore. Solidale, certo, ma fino a che punto?
“Hai fatto la cosa giusta italiano. Lui sarà comunque
Loco fino alla fine dei suoi giorni, almeno così avrà sempre la certezza d’essere un
talento, un fenomeno. Grazie alle tue parole sarà consapevole, una volta di più, di valere più di
tutti quelli che l’hanno snobbato.”.
Poco oltre la poltrona scorgo solo ora una televisione
accesa, la stessa che sentivo ormai da due stanze. Un uomo vestito di tutto
punto, evidenziato dal primo piano delle telecamere, sta facendo osservazioni che paiono pesantissime.
Volto le spalle a Juan
Pablo Garcia, volto le spalle al suo corpo già irrigidito, tornato composto
sulla poltrona, assieme agli orologi.
È bastato un istante per ritornare nella condizione precedente. L’attesa, la gioia, lui, io, tutto folle
ed irrazionale. Meglio tornare alla tv, meglio chiedere ad Escobar chi sia
quest’Eduardo Bonvallet che gesticola senza sosta.
Sono scombussolato, non voglio pensare al "Loquito", non voglio nemmeno provare ad immaginare cosa possano implicare le sfaccettature di un'esistenza del genere. Allo stesso modo voglio che lui non pensi a me per il resto della sua vita, voglio che dimentichi il mio volto e che si ricordi solamente della mia promessa.
In fondo voglio che questo pazzo continui a sentirsi un predestinato, voglio che continui ad esaltarsi, voglio che continui a tifare per se stesso.
In fondo voglio che questo pazzo continui a sentirsi un predestinato, voglio che continui ad esaltarsi, voglio che continui a tifare per se stesso.
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