di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook CLICCA QUI)
C'è qualcosa che non quadra. Ed è un
bene. “Football not politics” è uno dei motti più in voga fra
puristi, funzionari e affaristi del calcio: tre categorie nettamente distinte
che però, almeno su questo punto, vogliono pensarla allo stesso
modo. Il calcio non è politica, fuori la politica dagli stadi,
niente politica a ridosso del prato verde. Ma il calcio è un gioco e molto
altro di più, e allora cosa succede quando il suo popolo scende
dagli spalti e si riversa nelle strade?
Non ho mai condiviso il messaggio di quello slogan. Ovunque io abbia potuto ammirare un pallone rotolare mi è sempre parso di vederci
dentro molto di più. Spesso sono stato amichevolmente accusato di
vedere “il tutto nel niente”, ma tant'è. Dalla valorosa fatica silenziosa
dei campetti di paese, alle (ahinoi) enormi quantità di denaro
spostate di qua e di là a seguito dell'andamento di una partita di
calcio internazionale. Ecco la finanza sotterranea del calcio:
milioni di euro che piovono sulle teste pettinate alla moda dei
giocatori di un club dopo un gol, gli stessi milioni che scompaiono e
vanno a rimpinzare i conti degli avversari qualche minuto dopo, a
seguito di un'altra decisiva rete. Un ping pong costoso. Ma non è
finita qui. Il pallone che rotola si porta via con sé speranze e
desideri di uomini tristi e felici, poveri e ricchi. Trascina le
masse, è evasione da quel mondo alienato al
quale il tifoso dovrà tornare dopo il triplice fischio. E' un mondo
parallelo, è economia, finanza, sociologia, diritto, storia, geografia. Il calcio
sembra quasi un' Università, un' Università in bollente fermento, perché se anche
la nazione che più di tutte ha rappresentato nel tempo l'essenza
felice e spensierata del gioco, il Brasile, si ribella al contempo contro il governo di Dilma Rousseff e contro la FIFA significa che politica e calcio stanno insieme, dividendosi anima e
cuore di chi è tifoso, sì, ma prima di tutto Uomo.
Proteste in Brasile contro la Coppa del Mondo (foto: formiche.net) |
La logica del calcio come valvola di
potere e opportunità di arricchimento ha sfondato ogni argine
morale: la gente muore, i popoli sono costretti a piegare la schiena
per raccogliere i rancidi avanzi di un sistema inesatto, ingiusto,
infame, ciò che è puro diventa inesorabilmente marcio, perché il
potere persuade, ipnotizza, deforma la realtà, ed eccone le
conseguenze: un'arte, quella del futebol, che viene corrotta dai
signori della FIFA (e dell'UEFA), viene corrotta a tal punto da ferire l'anima
di ogni singolo tifoso, sostenitore, appassionato. In Brasile si
scende nelle strade per dire basta ad una politica poco limpida, agli
sprechi, ai tagli all'istruzione e alla sanità, al rincaro di servizi e alla cementificazione selvaggia. Ma
non solo: ci si riversa in piazza anche per dire stop al “calcio
dei pochi” che toglie ossigeno a chi, invece, soffoca nella
quotidiana precaria povertà di denaro e sentimenti. Si scende per le
strade per urlare contro i nemici del popolo sovrano e sognatore, e
lo si fa con tutta la rabbia che un corpo straziato può consentire,
la rabbia di chi sa di avere poco, materialmente poco, e di chi,
oltretutto, si sente derubato di un gioco e di un sogno che, in terra
carioca, dovrebbe essere di proprietà di tutti. Nessuno escluso.
L'ottica socialista e ridente di un calcio che scompare, di giorno in
giorno, impiccato pubblicamente e impunemente da avidi speculatori
senza scrupoli.
Scontri dei rivoltosi brasiliani contro le forze dell'ordine (foto: lettera43.it) |
Le urla, gli scontri, le rivolte
diventano testimonianza di dignità, di vita: ecco perché calcio è,
in molte delle sue accezioni, politica. E' il difendere un'essenza
che svanisce, è il dire NO ad un mondo accecato dalla sete di
potere, di ricchezza, dalle ingerenze della politica estera, un mondo
sfregiato, deturpato. E' anche dire NO, senza distinzione di
nazionalità e colori sociali, all'organizzazione di un campionato
europeo giovanile (giovanile!) in un Paese come Israele, macchiato
dal sangue di giovani generazioni sacrificate in nome di una sporca
meta. Il calcio è politica quando, ad Istanbul, si scende
in strada con addosso le maglie di Galatasaray, Besiktas e
Fenerbache, mettendo da parte la rivalità e l'odio consumato sugli spalti da decenni, unendo la propria fame di giustizia sociale,
di speranza, di cambiamento.
Striscione livornese contro gli Europei U21 in Israele. |
Questo vivido popolo universale ha
cominciato a dire basta ad un calcio malato e ai suoi esecrabili
governatori, manager di un'industria mafiosa, assassina,
ultracapitalista. Sognare un ritorno alle origini è un diritto,
sabotare questa macchina infernale, invece, un dovere. Ieri come
oggi, oggi come domani, lottare per un calcio più umano, con una
penna o a mani nude, è il compito di chi vive per un'ideale senza
compromessi.
“Football not politics”, ma chi ci
crede più?
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