di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook cliccate QUI)
Soffiava un vento freddo lungo il campo
desolatamente vuoto. Cominciava a fare buio e tutto intorno regnava il
silenzio. Il Vecchio Parrocchiale di via Santa Viola dominava tutto
il quartiere. Le finestre dei palazzi che lo circondavano su ogni
lato del perimetro erano tutte chiuse: l'inverno, eh, l'inverno.
Panni stesi a congelarsi e uccellacci grigi appollaiati sui balconi e
sulle antenne della tv. Pietro era riuscito a scavalcare la
recinzione, si era portato il suo pallone di cuoio ed era salito per
le scale che portavano al campo: il suo Tempio. La domenica al
Vecchio Parrocchiale non ci giocava nessuno da anni: il sabato la
società del paese organizzava qualche partita per i pulcini,
durante la settimana gli esordienti venivano ad allenarsi il martedì. Non c'era un
filo d'erba, e grazie al cazzo.
Di inverni così freddi e piovosi lì
se ne ricordavano pochi, quindi se ti aspettavi che ci fosse l'erba
ti sbagliavi di grosso. L'erba resisteva da inizio settembre a fine
settembre. Un mesetto, poi spariva. Falcidiata da tacchetti e goffe
entrate di piccoli diavoli in pantaloncini corti. A dirla tutta,
oltre a mancare l'erba il Vecchio Parrocchiale era pieno di buche.
Piccole, medie, grandi. Di ogni varietà, dalla buchetta fastidiosa
che ti fa saltare la palla prima di un tiro a botta sicura alla buca
che se non ci stai attento ti porta via la caviglia. E la carriera.
Ammesso che tu un giorno ne abbia una.
Qualcuno diceva che quel posto ricordava Highbury. Pietro non sapeva chi fosse stato
lo stronzo ad essersi inventato una cosa del genere ma più cresceva e più si convinceva del fatto che chiunque fosse stato doveva essere molto ubriaco quel
giorno. Lui Highbury l'aveva visto: suo cugino Gabriele gli aveva portato delle foto da Londra e al Vecchio Parrocchiale non ci assomigliava proprio per un cazzo. C'erano due piccole file di tribune, l'una di fronte
all'altra sui lati lunghi del campo. Settore locali e settore ospiti,
probabilmente. O almeno così doveva essere nella mente del
progettista, anni e anni prima. In realtà la tribuna che doveva
essere degli ospiti andava sempre deserta: d'inverno su quel lato
ghiacciava sempre e la distanza dal piccolo chiosco che vendeva caffè
e brulé diventava proibitiva. Lo gestiva Nestor, un simpatico
grassoccio che aveva l'abitudine di lavorare con la tuta
dell'Atalanta. Sempre la stessa, da una vita. Ecco il nostro
Highbury, il Vecchio Parrocchiale desolato, crocevia di silenzi e
ubriacature per sopportare il freddo dell'aspra pianura.
Highbury (o il Vecchio Parrocchiale?) un po' di anni fa (foto: Arsenal.com) |
Pietro se ne stava seduto sulla
panchina di ferro verde oramai in buona parte arrugginito con il pallone
– un bel Mitre comprato la settimana prima con i soldi di Natale –
tenuto stretto allo stomaco e una sigaretta accesa a spezzare l'aria.
Fumava da un po' ma aveva solo dodici anni, colpa di uno zio poco
responsabile e del brutto giro dell'oratorio. Il pacchetto di Camel,
un Mitre, un cappellino di lana, un vecchio paio di Diadora. Quelle
lì che abbiamo avuto tutti, nere e gialle, retaggio dei
favolosi anni 90 che si erano appena conclusi. Guardava fisso verso una delle due porte con i pali scrostati e le reti che ricordavano molto quelle dei Mondiali vinti dall'Inghilterra nel 1966. Lo sguardo concentrato. Lo faceva sempre: gli serviva per
immaginarsi la scenografia adatta. Chi voleva essere quel giorno?
Dove voleva essere? Quando? La storia si ripeteva ogni domenica, da
quando aveva scoperto che il Vecchio Parrocchiale era terra di
nessuno nel giorno del Signore. Era stato Maradona, era stato Pelé, Signori, Chiesa, Vieri, Bergkamp, Ginola... era stato persino Bierhoff. Ad un tratto, l'illuminazione.
"Sarò Roberto Baggio".
S'alzò dalla panchina lanciando oltre
la rete la sigaretta nel gelo ormai spenta da qualche minuto. Via il
cappellino. Era l'inizio rituale della sua cerimonia
d'immedesimazione. Chiudeva gli occhi, da solo in mezzo al gelido
silenzio di un campo che non aveva più nemmeno le righe bianche per
terra, e sceglieva il giorno, la partita, il gol. Doveva riprodurli
fedelmente e nel frattempo doveva anche improvvisare una cronaca per
tener aggiornati gli spettatori che seguivano il campionato tramite
radio. Il Vecchio Parrocchiale che fu il San Paolo, fu il Maracanà,
fu San Siro, fu l'Olimpico, fu il Friuli e l'Old Trafford (ma mai
Highbury, per rispetto) quel giorno si trasformò nel Delle Alpi di Torino. Odiava quello stadio perché odiava la Juve e gli faceva schifo com'era stato costruito. E lui se non fosse diventato calciatore, da grande, avrebbe voluto fare l'architetto quindi di queste cose, ovviamente, pensava d'intendersene abbastanza. Malgrado la
manciata di gradi sotto lo zero era il primo d' Aprile. Dell'anno
precedente, il 2001. Il Delle Alpi, ex Vecchio Parrocchiale, ospitava
trentacinquemila persone quel giorno. Al crepuscolo ormai imminente
si sostituì un sole d'inizio primavera. Pietro era lì, immerso nel
suo mare d'immagini, voci, ricordi. “Com'era andata quell'azione,
com'era andata”, se lo chiedeva freneticamente perché voleva che
ogni particolare fosse al suo posto. Non poteva deludere i tifosi, i
radioascoltatori, qualche anziana che, ne era sicuro, la domenica si
era accorta di lui e si divertiva a spiare le sue solitarie imprese.
Altra illuminazione.
Quattro minuti dalla fine, la Juventus
è avanti. In campo c'è persino Athirson che ha sostituito Zidane
qualche minuto prima. A Pietro scappa da ridere. C'è un giovane con
il 5 nelle file delle Rondinelle, si chiama Andrea Pirlo. Viene
dall'Inter, è uno che coi piedi ci sa fare. Riceve palla a
centrocampo, non alza nemmeno la testa. Annusa l'aria, compone una
melodia leggera come un canto d'usignolo, una melodia che deve
spegnersi esattamente sul piede di quello che sta là davanti. Quello
con il codino. Ed è proprio così che va: il numero 5 regala la sua
arte al primo violino dell'orchestra, il più grande di tutti. Il
lancio è perfetto, ma è tanto perfetto quanto difficile da
sfruttare, perché mancano quattro minuti al triplice fischio, perché
giochi contro la Juve e soprattutto perché appena ricevi quel
gioiello hai di fronte uno che sfiora i due metri, Edwin Van Der Sar,
e allora o ti inventi qualcosa di impensabile, qualcosa che trascenda
ogni categoria di gioco, qualcosa che vada oltre il tempo e lo spazio
o tutto diventa vano. O sei Roberto Baggio o è tutta un'illusione
maledetta. Ma tu sei Roberto Baggio.
Non servono didascalie o spiegazioni. |
La difesa della Juventus è tagliata
fuori, Baggio riceve palla quasi senza nemmeno vederla arrivare.
Sembra tutto scritto da Dio. Doveva andare così: l'Eterno ha scelto
i suoi interpreti. Il pallone viene accarezzato dal destro del Divin
Codino. E' una carezza come quelle che a quindici anni dai al tuo
primo amore. Di nascosto, seduti al parchetto dopo esser usciti di
casa con la scusa più sciocca per evitare di dire a mamma che ti
vedi con Lei. Ecco, Baggio fa così, accarezza la palla sottovoce, la
nasconde. Nasconde il suo genio. Lo nasconde talmente bene che
nemmeno Van Der Sar, che è lì a un metro, capisce cosa stia accadendo. Quando intuisce è troppo tardi, si getta goffo e
rassegnato. Roby è già di là. Ha accarezzato il suo tenero
amore e ora lo sta accompagnando lungo un trionfale avvenire. Un
tocco. E' bastato un tocco per fare tutto ciò che uno normale
avrebbe tentato di fare in un tempo infinitamente più lungo, in
maniera infinitamente più umana, con risultati infinitamente più
deludenti. Un tocco, ed è già tutto scritto. La porta è vuota ed è
la metafora di un cielo infinito che si schiude di fronte alla
bellezza dell'inestimabile genio. Appoggia di sinistro, lentamente,
quasi a illudere tutti. Tutti quelli che non ci hanno capito nulla e
sono nati, vissuti, morti in quei due secondi. Due secondi o poco
più.
Pietro riapre gli occhi e si accorge
che è buio pesto. Si volta, si guarda attorno, spaesato. Per
immaginare il soffio di una manciata di attimi ci ha messo un'ora intera. Poi
capisce: è la sua terza illuminazione. Capisce che tra tutti i
grandi di cui ha indossato le vesti e riprodotto le gesta, quel
Baggio era troppo persino per lui. Nonostante lui avesse segnato da
centrocampo al volo contro il Verona, nonostante avesse segnato in
finale in Coppa del Mondo con la maglia del Brasile. Abbassa lo
sguardo, sconfitto sul prato del suo Vecchio Parrocchiale. A casa sua. Dalla
tasca tira fuori una Camel. Se l'accende sbuffando, rimanendo
inchiodato al centro del campo. Chissà che ora si è fatta. Sembra
un uomo triste nel corpo di un bambino ancor più triste. Sputa per
terra, calcia la palla ancora pulita verso la panchina.
“La prossima volta devo ricordarmi che è meglio se provo a diventare Vugrinec, che Baggio è troppo forte".
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