"Il genio purtroppo non parla
per bocca sua
Il genio lascia qualche traccia di zampetta
come la lepre sulla neve"
(...)
dalla poesia "Il Genio" di Eugenio Montale, 1971.
Montale non poteva sapere, non poteva riferirsi a Dennis. Questo è certo. Sarebbero passati trentuno anni dalla pubblicazione a quella sera di marzo del 2002. Che penna e che sensibilità straordinaria, però, profonda fino a bucare il tempo e l'inafferrabile sagoma del futuro.
Ci sono momenti nella propria vita, pochi o molti non è importante stabilirlo, in cui il calcio cessa di essere quello che era stato fino a un minuto prima. Accade davanti alla meraviglia o all'angoscia degli istanti più intensi o, a volte, di fronte alla visione di "qualche traccia di zampetta" lasciata da un genio per essere contemplata e conservata, lungo i mesi, gli anni, i decenni. Bastano pochi secondi e niente è uguale a prima.
E' come se ti rendessi conto di quanto ciò che hai adulato in precedenza, ciò per cui ti sei strappato i capelli, ciò per cui hai detto "cazzo!" fosse niente a confronto con ciò che la Provvidenza ti ha permesso di ammirare in quel preciso istante. Non esiste uno schema scientifico, un algoritmo o una formula che ci permettano di capire con quale frequenza avvengano questi momenti. La rappresentazione del genio è regolata dal caos.
Uno di quei momenti, il primo della mia vita, per quanto mi riguarda, mi colse totalmente impreparato in un pomeriggio di domenica di dodici anni fa. Davanti alla tv scorrevano le immagini delle partite del campionato inglese del giorno prima. Gli highlights delle squadre straniere erano la mia eroina. Non ricordo che tempo facesse quel giorno, non ricordo un cazzo di quella domenica, potrei cercare su internet il clima per far fare bella figura alla mia memoria, ma non ho voglia di prendere in giro nessuno. Anche perché, come sempre, il protagonista non sono io, io sono solo uno spettatore, e dunque voglio che le luci del palcoscenico rimangano fisse nello stesso punto, ad illuminare il ricordo di quel momento.
St. James Park, Newcastle. Partita del tardo pomeriggio, i Magpies ospitano l'Arsenal di Wenger. La partita la vince l'Arsenal (47 punti fatti in trasferta in tutta la stagione sono una buona base per vincere la Premier, se ci pensate) e fin qui tutto appare abbastanza normale, scontato. Compresi i seggiolini dello stadio (che però, a ben vedere, sembra più un teatro) esauriti in ogni ordine di posto. Normale amministrazione, insomma.
Quel che accade appena dopo il lancio del servizio con le azioni salienti, però, è tutt'altro che ordinario. Mi sconvolge. E' uno di quei momenti in cui cresci, ti sembra di non esser mai cresciuto negli ultimi anni e in un momento eccoti lì, sei quasi un uomo. Come la prima volta al night club o la prima trasferta o... va beh, continuate pure voi. Torniamo al punto.
Bergkamp nel giorno del suo addio al calcio (foto: Gazzetta,it) |
Il numero 10 si chiama Dennis Bergkamp e in casa mia non ha mai goduto di particolare simpatia. Mio papà se lo ricorda dai tempi dell'Inter e di elogiarlo non se ne parlava proprio. "L'olandese non volante" era uno di quei giocatori che passano per Milano, sponda nerazzurra, e sebbene capisci che abbiano le qualità per diventare grandi, per la miseria, passi l'intera stagione a maledirli.
Bergkamp in maglia Inter. |
Ad ogni modo, il Bergkamp che veste la maglia dell'Arsenal è tutta un'altra cosa. E me ne accorgo senza proferire parola. Ammutolito, estasiato. Pires gli passa la palla, un passaggio che sembra un tiro. La palla gli rimbalza pure davanti, eppure... Eppure lui decide di essere volpe sulla neve, quel giorno.
Ha l'uomo attaccato alle spalle - il greco Dabizas, povero uomo - e per non disperdere la letale velocità della ripartenza ormai giunta in area di rigore avversaria non decide di stoppare la palla e aspettare un rimorchio, nossignore. Accarezza la sfera che neanche Gesù Cristo, se lo vedessimo giocare, riuscirebbe a fare meglio. La accarezza col mancino e la manda alla sua destra, Dabizas già non ci capisce più nulla. Non finisce qui, perché Dennis fa il giro opposto, danza sul prato ruotando il suo corpo alla sinistra del difensore greco, lo aggira. Lo umilia in mezzo metro quadro e in mezzo secondo. Palla da una parte, volpe dall'altra. Nemmeno un battito di ciglia e Bergkamp è di fronte a Given, lo guarda, mentre con il braccio tiene a distanza l'avversario che invano tenta di sciupare l'opera d'arte. Sembra dirgli "non t'intromettere coglione, è il mio giorno". Piattone educato, ad incrociare, gol.
Alla fine, quelle decine di migliaia di spettatori si erano ritrovati davvero a teatro, in scena era andata "La maestosa opera di un genio a piccole dosi fatali: Dennis Bergkamp".
Avrei voluto che qualcuno immortalasse la mia espressione. Doveva essere quella di un bambino sconvolto, ma intimamente felice. E' come se quel giorno avessi scoperto lo Sturm und Drang, anche se a dieci anni nessuno mi aveva ancora parlato del proto-romanticismo tedesco. Continuai a fissare lo schermo sperando che il replay non finisse mai.
Avevo scoperto che il calcio era diventato un'altra cosa: bellezza! Famelica e pericolosa bellezza, arte pura per spiriti indemoniati.
Grazie Dennis.
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