“L'anatroccolo si lanciò disperato verso di loro gridando: - Ammazzatemi, non sono degno di voi!-
Improvvisamente si accorse del suo riflesso sull'acqua: che sorpresa! Che
felicità! Non osava crederci: non era più un anatroccolo grigio… era diventato
un cigno.” Così Andersen concludeva più di un secolo fa una fiaba che segnerà
l’infanzia di milioni di bambini. Un finale intriso d’allegria, il gioioso
compimento d’una lunga e travagliata vicenda che, per larghi tratti, appariva
destinata ad essere caratterizzata da un’eterna sofferenza, da un’incorreggibile
inferiorità.
A distanza di quasi due secoli la storia si ripete, questa
volta non è ambientata nel rurale scenario descritto dal grande autore danese,
bensì in uno stagno tutto particolare. Fatto di seggiolini, abitato da
ventimila gallesi, orgogliosi d’essere i primi figli del dragone rosso a potersi
gustare la Premier League. Il Liberty Stadium incarna esattamente il concetto di
luogo affascinante e mistico, perfetto per questa fiaba dei giorni nostri.
I brutti anatroccoli però, nella nostra personalissima vicenda,
sono due.
Daniel Anthony Graham (per tutti Danny) e Miguel Perez
Cuesta o, più semplicemente, Michu, numeri dieci e nove dello Swansea AFC.
Due giocatori completamente differenti, assimilati però da
un passato nelle minors, anni lunghi, faticosi, costellati da delusioni ed
infortuni.
La prima punta di Gateshead incarna alla perfezione l’ideale
di rude uomo del nordest inglese. Tratti somatici e fisici che tanto sanno di
tipico lad da pub. Probabilmente in pochi ci saremmo stupiti nel vederlo
ripreso a braccia aperte, gesticolante ed urlante “wanker” ai danni di qualche
cockney giunto malauguratamente nel suo territorio. Prototipo d’attore di “The
Football Factory”, Danny non è mai stato un talento naturale. È stato ed è un
uomo. Uomo nell’affrontare gli anni bui al Boro, il viaggio a Darlington, l’unico
gol in due anni tra Rams, Leeds e Blackpool. Uomo nell’affrontare il difficile
inizio a Carlisle causa grave infortunio. Uomo nell’aver tenuto la testa alta,
nell’aver mangiato per anni il fango di campi non esattamente nobili (molte
volte anche dalla panchina). Uomo nell’aver sfruttato l’unico possibile punto
di svolta della sua carriera. In quattro anni tra Carlisle e Watford segna più
di sessanta gol. Scoppia, improvvisamente, inaspettatamente. Ma lui non cambia,
dà sempre l’idea d’essere conscio di quanto gli sia costato ogni singolo minuto
giocato, ogni singolo gol. Sorride, umilmente. Poi arriva la grande opportunità
nella città della Three Cliff Bay. Qui, il mancato pescatore del fiume Tyne,
capisce d’essersi definitivamente realizzato.
Miguel Cuesta non è il classico numero nove, è uno di quei giocatori
dalle caratteristiche indefinibili. In lui non possiamo che osservare un’alternanza
di movimenti, di giocate, di linee tratteggiate con il suo mancino,
paragonabile solamente alla morfologia del suo amato territorio asturiano. Al contrario
del suo attuale compagno d’attacco, Michu, sa dentro di se di non aver meritato
quegli anni in tercera division nel Real Oviedo. Già lo immagino, pugni
stretti, seduto nello spogliatoio, incapace di spiegarsi perché tanto talento
non riuscisse ad essere compreso da nessuno. Ma è questione di tempo. Quel qualcuno
lo trova pochi anni dopo, a Vigo. Da qui inizia una scalata esaltante ben
dipinta dai venticinque gol in maglia celeste e dagli ancora più impressionanti
quindici in maglia vallecas. Sembra l’apice della sua carriera, eppure Michu sa
di essere più di questo. Sbarca anche lui al Liberty Stadium. Il suo impatto
con la Premier è incredibile. Tredici gol in diciotto partite. La convocazione
in nazionale.
Il finale di questa fiaba calcistica, di cui Andersen
andrebbe molto fiero, ce lo scrivono loro, i due protagonisti, con le
rispettive esultanze. Dopo ogni gol in quella Premier tanto sognata, Danny
Graham, fa impazzire gli swans con una sana pernacchia, diretta a Madre Natura ed al mancato
talento, agli allenatori che lo relegavano in panchina in Championship, agl’infortuni.
Si batte forte il petto su quello stemma che ormai lo rappresenta. Michu urla
invece, contro il mondo, contro chi non credeva in lui, gira vorticosamente la
mano di fianco all’orecchio quasi a voler dire “si, ero pazzo a crederci”, poi
spiega le ali.
Nell’anno del centenario dei jacks, quasi a suggellare, a
rendere ancora più incantato quest’intreccio magico, si abbracciano i nostri
due cigni, sorridono guardandosi alle spalle, sono quello che hanno sempre
sognato di essere. Possono volare.
Gianmarco Pacione
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Greetings!
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