Pare ormai sepolta quell’età dell’oro giornalistica che in
primo piano poneva emozioni e non freddi numeri. Parole che dipingevano atmosfere
e gesta che in moltissimi potevano solo immaginare sfogliando avidamente
gazzette e guerin sportivi. Tempi in cui Sky, Mediaset ed i loro annessi
vomitatori di concetti dozzinali sarebbero risultati distanti anni luce,
inutili.
In quest’epoca ormai quasi dimenticata, un nome su tutti a
dominare, pipa alla bocca. Giovanni Luigi Brera, per tutti “Gianni” o, più
semplicemente, il giornalismo sportivo del ventesimo secolo in Italia.
Una penna che ha avuto la tanto complicata, quanto innata,
capacità di plasmare momenti di sport e trasmetterli a qualsiasi lettore in un
modo irraggiungibile da qualsiasi alta definizione televisiva. Articoli unici,
come unico il modo d’innovare prendendo spunto dal passato, dalla sua infinita
cultura classica, dalla sua padronanza delle lingue straniere. Neologismi
intrecciati a soprannomi che lo rendevano, nel dopoguerra, molto più
contemporaneo ed interessante dei tanti riciclatori dallo stile grossolano e
decisamente rivedibile (ahimè, quanto le cifre dei loro stipendi) che impazzano
nelle maggiori testate al giorno d’oggi.
È innegabile difatti che il calcio moderno sia figlio della
statistica e dell’onnipresente, noiosa, ricerca del Sacro Graal della
perfetta conoscenza di tutto ciò che
possa risultare strettamente necessario ai fini del rendimento.
Il superfluo è snobbato, abbandonato a se stesso da “pennaioli” non curanti del fatto che proprio l’imprevedibilità, il genio, la giocata fanno dello sport ed in particolare del calcio quello che ancora molti ritengono la rappresentazione più vicina al sacro.
Il superfluo è snobbato, abbandonato a se stesso da “pennaioli” non curanti del fatto che proprio l’imprevedibilità, il genio, la giocata fanno dello sport ed in particolare del calcio quello che ancora molti ritengono la rappresentazione più vicina al sacro.
Il giornalista medio per mancanza di personalità o, più
semplicemente, per incontestabile necessità, si è dovuto adattare a questo
trand che tanto sa di freddo resoconto del reddito mensile e, quasi
grottescamente, per niente esula da quella quotidianità da cui chiunque di noi
vorrebbe scappare senza voltarsi.
Lungi da me l’idea d’avvicinarmi, anche solamente, alla
figura dell’immenso scrittore pavese. Icaro c’insegna che, molte volte,
bisognerebbe limitarsi ad ammirare ciò che splende di luce propria. Io solamente
ripropongo, in uno spassionato tributo, alcuni termini che hanno reso Brera
tale leggenda.
Per farlo mi affido ad un giocatore particolare, che attira
a prima vista, come il sole che tanto caro costò al figlio di Dedalo. Al
contrario del mito però, proprio come l’orgoglioso giornalista padano, Vladimir
Weiss non nuoce all’ammaliato osservatore, lo prende per mano e lo trascina tra
un doppio passo, un cambio di velocità ed una veronica nel suo personalissimo
paese delle meraviglie.
Occhi di ghiaccio, testa rasata e volto duro fanno di lui la
perfetta rappresentazione della sua Slovacchia. Braccia dipinte come una tela
simbolista, che il nostro Giovanni avrebbe apprezzato, forse addirittura
omaggiato con un sorriso. Sicuramente avrebbe accennato ad esse descrivendo il
talento d’appena 23 anni come il “variopinto cursore biancazzurro”.
Giunto sulle calde rive pescaresi via Espanyol, dopo aver
precedentemente militato oltremanica nel Manchester City senza mai vedere il
campo, nella fredda Bolton e tra i protestanti di Glasgow.
Atipico abatino dal passo incontenibile, dallo scatto
bruciante. Celebratore e, forse, miglior interprete in Italia del concetto di
contropiede tanto caro a Brera stesso.
In quest’annata incredibilmente complicata per coloro che
tanto sono stati sedotti, quanto abbandonati, dal profeta boemo, il nativo di Bratislava sta riuscendo nel
complicatissimo compito di non far rimpiangere Lorenzo Insigne.
L’elettricità che si propaga attraverso i boati della curva
nord ad ogni tocco di palla del numero diciassette è coinvolgente. L’incontrollabile
desiderio di tenere gli occhi fissi su quei piedi, che sembrano volare, a
tratti sconfina nel mistico.
Accarezza la palla, uccella un primo avversario, poi un
secondo. Guarda i suoi compagni e sceglie, in un attimo, lo stesso che il
luminare della penna sportiva usava per tratteggiare emozioni. Al limite
dell’area con le calze alte e le scarpe gialle, sulla scrivania con la pipa
fumante che spunta dalla copiosa barba: l’intuizione.
Rientra su quel destro cha a giro, in pochi, eterni secondi ,
riporta a galla tutto ciò che sembra svanito assieme al Grangiùan. Il sussulto,
lo sbalzo del cuore, l’attesa, il mondo fermo, la contemporanea assenza e
presenza di tutto il nostro piccolo universo riassunto lì, in quella minuscola
sfera bianca. La desolata rassegnazione, l’incontenibile gioia.
E allora Weiss corre, come bene sa fare, sotto i vessilli
innalzati, in un tripudio senza tempo. I colori del mare e del cielo che, in un
modo quasi unico, fanno dimenticare le sue braccia tatuate, alzate in trionfo,
a sugellare un altro momento che fa di Eupalla l’unico, impareggiabile amore di
tutti noi.
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