di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook, clicca QUI)
C'è chi, sottovoce, dice sia stato il
più grande. Il tono basso, lo sguardo un po' alienato e un po'
impaurito. Certo, sì, siamo in democrazia, ma quella che regge il
mondo del calcio è ben più fragile e polarizzata di quella reale.
Inserirsi nella tenzone epocale tra Maradonisti e seguaci di Pelè è
un gioco pericoloso: bisogna misurare le parole, argomentare con
umiltà, concedersi solo qualche secondo di gloria: si verrà presto
sommersi dai racconti e dalle gesta di quei due, inattaccabili e
inarrivabili. Eppure, nel sottobosco della passione, c'è chi coltiva
ancora l'amore eterno e l'ammirazione morbosa per altri dèi.
Garrincha, Messi, Platini. Oppure lui: Johann Cruijff.
Johann sembra nato per giocare a
calcio, nato per mischiare la propria esistenza con l'erba e con il
fango. Non è tutto qui: non c'è solo la passione, sfrenata, ma
anche il talento: infinito. La madre che lavora per l'Ajax, la
famiglia che abita lì, a pochi passi dal "De Meer", lo stadio dei
biancorossi della capitale. E poi il padre che scompare presto, e Johann
che viene spinto dal destino, dolce e amaro come spesso capita, ad
entrare nella storia.
Beckenbauer e Cruijff durante Ajax-Bayern 4-0, quarti di finale della Coppa dei Campioni del 1973. |
Johann è fragile, il corpo non ancora
pronto per lottare a certi livelli. Il viso scarno, pallido. Le gambe
ossute. Ma velocissime, rapide, coordinate. Micidiali, come i piedi,
ricoperti per un'intera carriera da scarpe nere marchiate Puma.
L'Ajax lo rafforzerà, e nel 1966, all'arrivo di Rinus Michels, Cruijff
sarà finalmente pronto per incantare l'intero continente. I capelli
da Beatle, l'estro inafferrabile e letale, il 14 sulle spalle,
ribelle gesto di identità in un'era in cui i numeri erano
rigorosamente compresi fra 1 e 11: diventerà il simbolo di un nuovo
calcio, quello “totale”, che mai come prima riuscirà a cogliere
la concezione moderna del gioco. Correre, correre, correre. Nessun
ruolo statico, interscambiabilità, imprevedibilità. L'Europa
diventa matta di fronte alla nuova filosofia olandese: lì in mezzo,
in quel burrascoso mare che travolge chiunque tenti di affrontarlo,
proliferano i fenomeni di una nuova generazione: Neeskens, Krol, Rep.
Poi lui, su tutti, il Poseidone dei mari del Nord: Johann. Il
progetto dei Lancieri raccoglie con pazienza i suoi frutti: dal 1969
al 1973 l'Ajax gioca quattro finali di Coppa dei Campioni su cinque.
Ne vince tre, tutte di fila. Cruijff è l'eclettico rivoluzionario
simbolo di una stagione di fermenti, calcistici, sociali, politici.
Viaggia di pari passo con altre figure mistiche nell'immaginario di
milioni di giovani: arrabbiati, disillusi, ironici, dissacranti.
Cruijff, con la palla ai piedi, è un po' di tutto questo. Niente di
eclatante a parole, per parlare i piedi bastano e avanzano.
Cruijff in maglia Ajax |
In quel periodo “il Profeta del Gol”
si afferma, come un rombo di tuono, anche a livello personale: non è
più un fondamentale ingranaggio di una macchina perfetta. E'
qualcosa di più, qualcosa di diverso: vince il Pallone d'Oro, il
massimo riconoscimento a livello mondiale per uno che prende a calci
un pallone, nel 1971 e nel 1973. Ne arriverà un altro anche nel
1974, ma quello apparterrà già ad un'altra storia.
E' un'altra storia perché il calcio,
oggi più che mai ma anche un tempo, funziona così: si piega
bellamente alle logiche del potere, del denaro, del successo. Johann
da rivoluzionario diventa arricchito simbolo di un gioco sempre più
prosperoso. Si lascerà sedurre dal Barcellona, abbandonando il suo
popolo, e continuerà vivendo un tumultuoso rapporto con la
Federazione Olandese e, dunque, anche con la nazionale. Orgoglioso e
consapevole, l'amore con la maglia Orange non riuscirà mai a
sbocciare: tra l'avida passione per i soldi e l'età che,
inesorabile, fa sentire la sua morsa, la carriera di Johann comincia
un lento declino, sportivo e morale, che tanto stride con l'inizio di
questa favola.
Cruijff durante l'avventura americana, qui in maglia Aztecs. |
Abbandonerà la Catalogna a 31 anni, vittima della
“febbre dell'oro” del calcio americano, terra boriosa e in cerca
di nomi illustri da mettere sul piedistallo. Tornerà in Europa,
fugace apparizione con il Milan, poi, ad inizio anni 80 sembra stia
per calare il sipario: Cruijff finisce in Seconda Divisione, in
Spagna, al Levante. Contratto a gettone: un inglorioso finale che,
però, finale ancora non è. Tornerà per un breve periodo negli
Stati Uniti, poi, figliol prodigo, di nuovo a casa: Ajax, ancora,
otto anni dopo. Una vita dopo. Vince due titoli, quattordici gol in
due anni, sarà il compagno di squadra di due stelle del futuro:
Rijkaard e Van Basten. Sembra che il “Pelè bianco” abbia espiato
i suoi peccati, sembra che, ora, il sipario possa davvero calare fra
gli applausi e le lacrime e i tulipani lanciati sul palco. Cruijff,
il fenomeno dal cuore grande.
Johann in maglia Feyenoord, l'ultima della sua carriera |
Invece, ancora una volta, colpo di scena: l'ultimo di una carriera fatta di picchi tecnici altissimi e bassi umani cronici, come questo. Un tradimento consumato in età matura, l'estremo ed il più grave: nell'estate 1983 passa al Feyenoord, la squadra di Rotterdam, acerrima rivale dei Lancieri di Amsterdam. Vincerà, giocando da libero, campionato e coppa d'Olanda (al fianco di un giovane Ruud Gullit). Ma questo era fuor di dubbio: Johann rimane un fenomeno, appesantito dagli anni, ma ancora lucido, esperto, temuto.
Eppure, nonostante i trionfi, è difficile apprezzare il sapore di questo epilogo: è amaro, cinico, fin troppo contemporaneo. Fenomenale anche in questo, nel bene e nel male, Cruijff arriva ancora una volta prima di tutti: eccelso poeta del nuovo calcio e, al contempo, lungimirante profeta di un'epoca che non tarderà ad arrivare, annegata nel danaro, carnefice implacabile di antichi valori e di nostalgico romanticismo.
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