mercoledì 29 maggio 2013

IL MITO ITALIANO, GIUSEPPE TICOZZELLI



 di Gianmarco Pacione (per seguirci su Facebook clicca qui)
L'Alessandria dei primissimi anni '20, Ticozzelli secondo da destra
La mano che lascia il manubrio per sfiorare la tasca cucita sopra il cuore. Un tocco fugace, rassicurante. È lì, non si è mossa, neppure in mezzo a quei grotteschi boati. Ultimo appiglio vitale. La piccola agenda è immobile, rintanata nella verde stoffa. Poche pagine, fitte d’emozioni, di speranze.

Pestano sui pedali i pesanti scarponi. La penna sul capo pare fischiettare a contatto con il vento, il fucile rimbalza sulla schiena, insicuro. Paolo Bocchio corre, per la prima volta dopo anni, verso la vittoria. Al suo fianco il Piave fluisce potente, fragoroso, italiano.

D’un tratto ecco il manubrio ciondolare irrispettoso. La ghiaia che saluta il volto, abbracciandolo stringendo un involontario patto di sangue. Lo sciame di bici prosegue, non curante. È una marcia verso la terra promessa, una lunga cavalcata patriottica. Il coronamento di dieci giorni, di anni di battaglia, di sudore, di trincea.

Dai Paolin, non vorrai restare dietro proprio l’ultima tappa eh!”. Voce conosciuta. Il tenente Carlo Sabatini, anche lui di Alessandria, anche lui figlio di “genitori impropri”: la ruota, il pallone. Quante ore a discutere di quelle due religioni tra terriccio e filo spinato, quanti attimi volti al ricordo di gesta eroiche neppure viste, solamente raccontate. “Guarda che ti si è aperto il taschino, hai tutte le tue cartacce per terra.”.


"Tico" in una foto in maglia azzurra
Paolo febbrilmente gesticola, rastrella ogni centimetro di superficie disponibile. Il contatto dell’indice destro con la carta consumata è pura estasi. Due foto, nitide quanto basta: i grigi, l’undici della sua città, colori di casa. Unico segno distintivo la scritta celebrativa: Foot Ball Club Alessandria 1913-14. Nell’altra immagine il maestoso corpo di un uomo distinto da guizzanti baffi e da una sconosciuta fierezza, è abbracciato a lui.
Non sia mai che perda questa tenente, se succede il Tico mi ammazza di botte appena torno a casa.”.

I distanti richiami di trombe squillanti per un attimo estraniano Paolo. Seduto, rannicchiato, si ritrova a scrutare la rapide e geometriche gambe del dottor Sabatini. Lo salutano dirigendosi là, verso l’assonnata luce del sole sorto da poco. La pupilla si confonde con quei chiari raggi. Come per magia le trombe diventano uno sparo, un fischio, un prato verde, una strada sterrata, un migliore amico.

Giuseppe Ticozzelli (“Tico”, come lo chiamava lui) abitava in una cascina in via della Stortigliona, a due passi da casa sua. Due giovani cresciuti come fratelli, sempre spalla a spalla, pugno a pugno, trascinati e plasmati dalla più maschile delle amicizie. Si cominciava all’alba, si finiva con le urla delle madri. Ad accompagnarli, serve sublimi, la palla e la bicicletta.

Paolo fin da subito l’aveva capito. Ammirava la potenza, la disarmante superiorità fisica del suo migliore amico. Quante partite perse senza nemmeno toccare il pallone, quante gare mai in bilico. Costante sapore di sconfitta. Odiava, accettava. Comprendeva mese dopo mese che quelle spalle erano troppo dominanti per la campagna alessandrina, che quelle gambe autorevoli dovevano mietere ben altre vittime rispetto alla sua calma umiltà.

Tico puoi fare tutto: sei forte a calcio, in bici non ti si prende. Vorrei proprio essere come te.”. Attestato di stima, più profondo patto di fratellanza. Tifoso d’una lealtà imbattibile, alleato affettuoso, origine d’una leggenda senza età.

Paolin, tranquillo, io farò tutto: giocherò a pallone e correrò in bicicletta.”.
Inizia così la fiaba di Giuseppe Ticozzelli, sperduta tra interminabili corse nelle verdi periferie piemontesi ed in un amore sconfinato per due ragioni di vita, più che sport.

La grande passione d'infanzia di Ticozzelli: squadra ciclistica della Maino
Un filo rosso, binomio d’immortalità. “Tico” è una quercia con piedi e braccia, le caratteristiche sono impressionanti per l’epoca: 187 centimetri, più di 90 chili e 84 centimetri di giro coscia. Un gigante rubato ai circhi ambulanti e messo a calciare un pallone. Grande, enorme dentro e fuori il campo. Scrive la storia della società calcistica d’Alessandria, fondandola nel 1912 e risultandone, contemporaneamente, giocatore e dirigente. Terzino destro arcigno ed autorevole, impenetrabile obelisco, irresistibile fromboliere.

Le sue gambe risulterebbero un'eccessiva dichiarazione d'onnipotenza anche per i nostri tempi: due concentrati di pura forza, tanto bruta quanto umana. Artefici della rete più lunga della storia, 75 metri, direttamente da calcio di rinvio; instancabili stantuffi dei grigi fino al 1920. Irrinunciabili innesti in maglia Spal tra il ’21 ed il ’24 ed in maglia stellata Casalese per i successivi sette anni. Campione anche in maglia azzurra, ricordato per aver preso parte al famosissimo 9-4 italiano ai danni della Francia nell’indimenticabile 18 gennaio 1920.

Immagine del Velodromo Sempione (1919)
È proprio in quello stracolmo velodromo di Sempione che la leggenda ha un primo impatto con il grande pubblico. È in quell’afoso pomeriggio milanese che “Tico” diventa, per tutti, l’emblema d’eroe sportivo.

Paolino stringe forte la foto ed il ricordo di quel lungo abbraccio.

È il suo amico, il suo fratello, il suo campione. Il sole l'osserva più alto, rimasto celato ed ora cresciuto implacabilmente, come l’orgoglio tricolore. La vista tentenna ancora, però, la strada è completamente libera, non c’è più nessuno. Paolo è ancora a contatto con il terreno, si sistema il cappello, quasi a salutare un’immaginaria bandiera di fronte a lui. Il richiamo dei luminosi raggi ora si è fatto più forte che mai, ed ecco il giovane ardito confinarsi nuovamente nei ricordi.


Una stanza umida nel pieno centro d’Alessandria, casa di Mario, amico di vecchia data. Poche parole e poche firme, la creazione della squadra che farà innamorare una città intera. “Ma che colori indosseremo?”, aveva accennato. “Semplice, quelli della mia amata, della mia bici, la Maino. Saremo proprio grigi come lei Paolin.”.  Istanti fascinosi e purissimi. Contemplatori di vite future.


immagine di una Maino da corsa degli anni '30
La stessa Maino che accompagnerà “Tico” per tutta la sua vita. A partire da quel 18 gennaio 1920, quando il terzino destro si presenterà alla convocazione azzurra proprio in bici, a pochi istanti dal fischio d’inizio, dopo aver percorso l’intera tratta Alessandria-Milano in mattinata.
La stessa Maino che stringerà l’immenso atleta nel Giro d’Italia del 1926. Già, perché la leggenda non è tale se priva del pieno compimento. E così ecco “Tico” dare filo da torcere a Girardengo e soci. Ciclista solo, senza squadra e religione, vestito con la maglia nero  stellata di Casale. Tre tappe portate fino in fondo, con onore e fatica, guadagnando posizioni di tutto rispetto. Poi la quarta ed ultima, lo schianto con un motociclista, le ferite che non permettono la pedalata, il ritiro.

L’alone mitologico non lascia dubbi su quelle cosce senza fine: manubri piegati, sellini rotti e pedali inclinati dalla più limpida delle fatiche.

Il Casale del 1928, con la maglia stellata indossata da "Tico" al Giro
Quattro giornate che lo fanno entrare nella storia. Celebri e commoventi le sue fughe iniziali, a dimostrare una superiorità senza eguali. Irriverenti le pause per rifocillarsi, specie quella nei pressi del passo del Bracco. Genova distante, gl’inseguitori pure. Ed ecco “Tico” prendere posto all’esterno di un’osteria, come il più umano degli dei, e ordinare in tutta calma, in attesa del gruppone.

Note di calcio al di là di qualsiasi romanticismo, note che sfiorano il sovrannaturale, rendendolo meraviglioso.

Paolo è di nuovo in piedi, pulisce rispettosamente lo stemma della sua bicicletta. È tutta grigia, è targata Maino. La sua, la nostra nazione ha appena accettato l’armistizio; la guerra è finita. Il giovane alessandrino sale sulla sella, gesto automatico ma sempre assaporato, stringe le mani sul manubrio, si volta a sinistra. “Tico!”. Per un attimo l’ha visto. Il suo amico, il suo imbattibile rivale. Inizia a pedalare "Paolin", pedala forte, come mai prima d’ora. Spinge sè e la sua amata verso quel sole che pare sempre più vicino. Lo sente, questa volta sta vincendo la gara, a distanza di fiumi, di boschi, di città, di regioni. “Ho vinto Tico! Hai visto? Sembravo te!”. Annaspante euforia, insensato giubilo.

Ticozzelli in divisa durante la Grande Guerra
Correranno ancora insieme Paolo e Giuseppe. Lo faranno fino al 1935, quando “Tico”, plurimedagliato ufficale, perderà la vista in uno scontro a fuoco nell’Africa Orientale. Ma la leggenda non può essere limitata dalla banale sfortuna. Non si sfideranno più nelle campagne piemontesi i due amici, i due fratelli; non perderanno però una singola partita della loro creazione, dell’amato Foot Ball Club Alessandria. Seguiranno ognuna di esse come ai tempi di via della Stortigliona: spalla a spalla, con "Paolin" a raccontare ogni singola azione, pugno a pugno, giubilanti in caso di gol dei grigi.

Il tempo crea le leggende. Il tempo le glorifica. Il tempo le fa dimenticare. Giuseppe Ticozzelli muore il 3 febbraio 1962, a sessantotto anni. Sul suo petto, assieme alle medaglie ed alle lacrime di Paolo, giacciono ancora quelle due foto con mezzo secolo di storia alle spalle. L’undici alessandrino, l’abbraccio fraterno.

Poco conta se la storia accetterà di far scorrere la sua leggenda come il Piave sul suo letto in quella mattina del ‘18. Per me, per Paolo, per noi, il grande “Tico”, sarà sempre l’immagine di un mito senza età. Eroe sportivo ed umano, dall’animo smisurato tanto quanto la circonferenza delle cosce.













NB: parte dei fatti potrebbe essere parzialmente inventata





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