di Gianmarco Pacione (per seguirci su Facebook clicca qui)
L'Alessandria dei primissimi anni '20, Ticozzelli secondo da destra |
La mano che lascia il manubrio per sfiorare la tasca cucita
sopra il cuore. Un tocco fugace, rassicurante. È lì, non si è mossa, neppure in
mezzo a quei grotteschi boati. Ultimo appiglio vitale. La piccola agenda è
immobile, rintanata nella verde stoffa. Poche pagine, fitte d’emozioni, di
speranze.
Pestano sui pedali i pesanti scarponi. La penna sul capo
pare fischiettare a contatto con il vento, il fucile rimbalza sulla schiena,
insicuro. Paolo Bocchio corre, per la prima volta dopo anni, verso la vittoria.
Al suo fianco il Piave fluisce potente, fragoroso, italiano.
D’un tratto ecco il manubrio ciondolare irrispettoso. La
ghiaia che saluta il volto, abbracciandolo stringendo un involontario patto di
sangue. Lo sciame di bici prosegue, non curante. È una marcia verso la
terra promessa, una lunga cavalcata patriottica. Il coronamento di dieci
giorni, di anni di battaglia, di sudore, di trincea.
“Dai Paolin, non vorrai restare dietro proprio l’ultima
tappa eh!”. Voce conosciuta. Il tenente Carlo Sabatini, anche lui di
Alessandria, anche lui figlio di “genitori impropri”: la ruota, il pallone.
Quante ore a discutere di quelle due religioni tra terriccio e filo spinato,
quanti attimi volti al ricordo di gesta eroiche neppure viste, solamente
raccontate. “Guarda che ti si è aperto il taschino, hai tutte le tue cartacce
per terra.”.
"Tico" in una foto in maglia azzurra |
Paolo febbrilmente gesticola, rastrella ogni centimetro di
superficie disponibile. Il contatto dell’indice destro con la carta consumata è
pura estasi. Due foto, nitide quanto basta: i grigi, l’undici della sua città,
colori di casa. Unico segno distintivo la scritta celebrativa: Foot Ball Club
Alessandria 1913-14. Nell’altra immagine il maestoso corpo di un uomo distinto
da guizzanti baffi e da una sconosciuta fierezza, è abbracciato a lui.
“Non sia mai che perda questa tenente, se succede il Tico mi
ammazza di botte appena torno a casa.”.
I distanti richiami di trombe squillanti per un attimo estraniano
Paolo. Seduto, rannicchiato, si ritrova a scrutare la rapide e geometriche
gambe del dottor Sabatini. Lo salutano dirigendosi là, verso l’assonnata luce
del sole sorto da poco. La pupilla si confonde con quei chiari raggi. Come per
magia le trombe diventano uno sparo, un fischio, un prato verde, una strada
sterrata, un migliore amico.
Giuseppe Ticozzelli (“Tico”, come lo chiamava lui) abitava
in una cascina in via della Stortigliona, a due passi da casa sua. Due giovani
cresciuti come fratelli, sempre spalla a spalla, pugno a pugno, trascinati e
plasmati dalla più maschile delle amicizie. Si cominciava all’alba, si finiva
con le urla delle madri. Ad accompagnarli, serve sublimi, la palla e la
bicicletta.
Paolo fin da subito l’aveva capito. Ammirava la potenza, la
disarmante superiorità fisica del suo migliore amico. Quante partite perse
senza nemmeno toccare il pallone, quante gare mai in bilico. Costante sapore di
sconfitta. Odiava, accettava. Comprendeva mese dopo mese che quelle spalle
erano troppo dominanti per la campagna alessandrina, che quelle gambe autorevoli
dovevano mietere ben altre vittime rispetto alla sua calma umiltà.
“Tico puoi fare tutto: sei forte a calcio, in bici non ti si
prende. Vorrei proprio essere come te.”. Attestato di stima, più profondo patto
di fratellanza. Tifoso d’una lealtà imbattibile, alleato affettuoso,
origine d’una leggenda senza età.
“Paolin, tranquillo, io farò tutto: giocherò a pallone e
correrò in bicicletta.”.
Inizia così la fiaba di Giuseppe Ticozzelli, sperduta tra
interminabili corse nelle verdi periferie piemontesi ed in un amore sconfinato per
due ragioni di vita, più che sport.
La grande passione d'infanzia di Ticozzelli: squadra ciclistica della Maino |
Un filo rosso,
binomio d’immortalità. “Tico” è una quercia con piedi e braccia, le caratteristiche sono
impressionanti per l’epoca: 187 centimetri, più di 90 chili e 84 centimetri di giro
coscia. Un gigante rubato ai circhi ambulanti e messo a calciare un pallone. Grande,
enorme dentro e fuori il campo. Scrive la storia della società calcistica d’Alessandria,
fondandola nel 1912 e risultandone, contemporaneamente, giocatore e dirigente. Terzino
destro arcigno ed autorevole, impenetrabile obelisco, irresistibile fromboliere.
Le sue gambe risulterebbero un'eccessiva dichiarazione d'onnipotenza anche per i nostri
tempi: due concentrati di pura forza, tanto bruta quanto umana. Artefici della rete più lunga della
storia, 75 metri, direttamente da calcio di rinvio; instancabili stantuffi dei
grigi fino al 1920. Irrinunciabili innesti in maglia Spal tra il ’21 ed il ’24 ed
in maglia stellata Casalese per i successivi sette anni. Campione anche in
maglia azzurra, ricordato per aver preso parte al famosissimo 9-4 italiano ai
danni della Francia nell’indimenticabile 18 gennaio 1920.
Immagine del Velodromo Sempione (1919) |
È proprio in quello stracolmo velodromo di Sempione che la
leggenda ha un primo impatto con il grande pubblico. È in quell’afoso pomeriggio
milanese che “Tico” diventa, per tutti, l’emblema d’eroe sportivo.
Paolino stringe forte la foto ed il ricordo di quel lungo
abbraccio.
È il suo amico, il suo fratello, il suo campione. Il sole l'osserva più
alto, rimasto celato ed ora cresciuto implacabilmente, come l’orgoglio
tricolore. La vista tentenna ancora, però, la strada è completamente libera, non
c’è più nessuno. Paolo è ancora a contatto con il terreno, si sistema il
cappello, quasi a salutare un’immaginaria bandiera di fronte a lui. Il richiamo
dei luminosi raggi ora si è fatto più forte che mai, ed ecco il giovane ardito confinarsi
nuovamente nei ricordi.
Una stanza umida nel pieno centro d’Alessandria, casa di
Mario, amico di vecchia data. Poche parole e poche firme, la creazione della
squadra che farà innamorare una città intera. “Ma che colori indosseremo?”,
aveva accennato. “Semplice, quelli della mia amata, della mia bici, la Maino. Saremo
proprio grigi come lei Paolin.”. Istanti
fascinosi e purissimi. Contemplatori di vite future.
immagine di una Maino da corsa degli anni '30 |
La stessa Maino che accompagnerà “Tico” per tutta la sua
vita. A partire da quel 18 gennaio 1920, quando il terzino destro si presenterà
alla convocazione azzurra proprio in bici, a pochi istanti dal fischio d’inizio,
dopo aver percorso l’intera tratta Alessandria-Milano in mattinata.
La stessa Maino che stringerà l’immenso atleta nel Giro d’Italia
del 1926. Già, perché la leggenda non è tale se priva del pieno compimento. E così
ecco “Tico” dare filo da torcere a Girardengo e soci. Ciclista solo, senza
squadra e religione, vestito con la maglia nero stellata di Casale. Tre tappe
portate fino in fondo, con onore e fatica, guadagnando posizioni di tutto
rispetto. Poi la quarta ed ultima, lo schianto con un motociclista, le ferite
che non permettono la pedalata, il ritiro.
L’alone mitologico non lascia dubbi su quelle cosce senza
fine: manubri piegati, sellini rotti e pedali inclinati dalla più limpida delle
fatiche.
Il Casale del 1928, con la maglia stellata indossata da "Tico" al Giro |
Quattro giornate che lo fanno entrare nella storia. Celebri
e commoventi le sue fughe iniziali, a dimostrare una superiorità senza eguali. Irriverenti
le pause per rifocillarsi, specie quella nei pressi del passo del Bracco. Genova
distante, gl’inseguitori pure. Ed ecco “Tico” prendere posto all’esterno di un’osteria,
come il più umano degli dei, e ordinare in tutta calma, in attesa del gruppone.
Note di calcio al di là di qualsiasi romanticismo, note che
sfiorano il sovrannaturale, rendendolo meraviglioso.
Paolo è di nuovo in piedi, pulisce rispettosamente lo stemma
della sua bicicletta. È tutta grigia, è targata Maino. La sua, la nostra
nazione ha appena accettato l’armistizio; la guerra è finita. Il giovane
alessandrino sale sulla sella, gesto automatico ma sempre assaporato, stringe
le mani sul manubrio, si volta a sinistra. “Tico!”. Per un attimo l’ha visto. Il
suo amico, il suo imbattibile rivale. Inizia a pedalare "Paolin", pedala forte,
come mai prima d’ora. Spinge sè e la sua amata verso quel sole che pare sempre
più vicino. Lo sente, questa volta sta vincendo la gara, a distanza di fiumi,
di boschi, di città, di regioni. “Ho vinto Tico! Hai visto? Sembravo te!”.
Annaspante euforia, insensato giubilo.
Ticozzelli in divisa durante la Grande Guerra |
Correranno ancora insieme Paolo e Giuseppe. Lo faranno fino
al 1935, quando “Tico”, plurimedagliato ufficale, perderà la vista in uno scontro
a fuoco nell’Africa Orientale. Ma la leggenda non può essere limitata dalla banale
sfortuna. Non si sfideranno più nelle campagne piemontesi i due amici, i due
fratelli; non perderanno però una singola partita della loro creazione, dell’amato
Foot Ball Club Alessandria. Seguiranno ognuna di esse come ai tempi di via della Stortigliona:
spalla a spalla, con "Paolin" a raccontare ogni singola azione, pugno a pugno,
giubilanti in caso di gol dei grigi.
Il tempo crea le leggende. Il tempo le glorifica. Il tempo
le fa dimenticare. Giuseppe Ticozzelli muore il 3 febbraio 1962, a sessantotto anni. Sul suo petto, assieme alle medaglie ed alle lacrime di Paolo,
giacciono ancora quelle due foto con mezzo secolo di storia alle spalle. L’undici
alessandrino, l’abbraccio fraterno.
Poco conta se la
storia accetterà di far scorrere la sua leggenda come il Piave sul suo letto
in quella mattina del ‘18. Per me, per Paolo, per noi, il grande “Tico”, sarà
sempre l’immagine di un mito senza età. Eroe sportivo ed umano, dall’animo smisurato tanto quanto
la circonferenza delle cosce.
NB: parte dei fatti potrebbe essere parzialmente inventata
Nessun commento:
Posta un commento