sabato 26 aprile 2014

CHE C'È DI MALE AD ESSERE STATO ANDONI GOIKOETXEA?

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook clicca QUI)



Che volete che vi dica, amigos? Nel calcio non può mica esistere solo la giocata decisiva, l'armonia dell'assist vincente, la gioia liberatrice della rete segnata sul filo del fuorigioco. C'è molto, molto di più, e io sono l'ambasciatore delle verità scomode.

Chiamatemi come volete: per la mia gente, a casa mia, nei Paesi Baschi, ero “il gigante di Alonsotegi”, che è il posto dove sono nato. Incastonato in una verde vallata, poche anime, un solo santo protettore: il sottoscritto. Tutti gli altri, soprattutto quelle fichette britanniche, amavano dire che io fossi “il macellaio di Bilbao. Vi confesso, sì, che quel soprannome non mi è mai dispiaciuto: il calcio è fatto di gente che corre e gente che rincorre, io sono sempre stato uno a cui piaceva appartenere alla seconda categoria, e che c'è di male? 

Non ammirereste le meravigliose punizioni dei vostri beniamini, non esultereste per un'espulsione rimediata dall'avversario se non ci fossero quelli come me. Quelli per cui il calcio è bello con un po' di sangue, qualche frattura, un sano clima da corrida. I Quentin Tarantino del pallone, splatter e gran figli di puttana. Se chiedete a Schuster e a Diego, sì, quel Diego, vi risponderanno indignati. Tanto rumore per nulla, amigos.

Sono stati gesti spontanei , istintivi e geniali quanto un tunnel, una rabona, un doppio passo. E a voi sono piaciuti. Ammettetelo: quel Diego lì era forte, ma che palle quando un solo protagonista si prende il palco del mondo; non era una questione di gelosia, invidia, vanità. Volevo solo diventare il re dei cattivi, volevo offrire al pubblico un lato oscuro al quale affezionarsi, volevo dare di più a quelli che se ne stavano sugli spalti ad attendere la giocata decisiva. Io ho reso emozionanti anche i più scialbi zero a zero, credetemi. Il più odiato, questo volevo essere, o forse il più amato. Non avevo le idee ben chiare e dovreste sapere che spesso le due cose coincidono, no?

Probabilmente, e lo dico con fierezza ed orgoglio, ci sono riuscito. Anche se i giovani che hanno in mente i macellai di oggi non sanno nemmeno chi sono, colpa anche del mio nome difficile da pronunciare, già, ma che importa? Sono stato il re nei miei anni ottanta, cazzo. E tanto mi basta. Non sono esistiti solo Paolo Rossi, Cindy Lauper, "Ritorno al futuro" e i Paninari in quel decennio maledetto. C'ero anche io. L'ambasciatore delle verità scomode, il diplomatico del dolore con la divisa biancorossa dell'Athletic, la mia squadra, la mia famiglia, nutrita con la ferocia, con la fame, con quell'andare oltre, quel godere delle smorfie disgustate di chi pensava di venire ad assistere ad un balletto russo e invece si trovava spettatore di furiose lotte sanguinarie.

E ringraziatemi, o avreste sbadigliato e buttato i vostri soldi, maledendovi per non averli spesi con qualche puta con cui sciacquarvi l'anima, il sabato sera. Ringraziatemi e amatemi se proprio non riuscite a detestarmi, amigos, e ricordate che se non potete farvi amico il Dio del bene, allora dovrete cercare almeno di allearvi con il Diavolo.
Crack.



sabato 19 aprile 2014

FORESTA SOMALA: IL MOGADISHU STADIUM.

di Gianmarco Pacione (per seguirci su FB clicca qui)
Il Mogadishu Stadium prima del 2013
Scorcio interno con porta
Il centrocampo


Esisteva una foresta sconosciuta.

Rami che ostacolavano vista e cuore.

Armi che sostituivano fumogeni.


 Il tremendo conflitto civile somalo appare ancora oggi sfocato, distante, senza tempo. Non ha appeal o, forse, è troppo complesso da decriptare.

Tasselli religiosi, signori della guerra, CIA. Enorme e segreto calderone di forze e fattori. Esecutori e torturati, assassini e vittime incolpevoli. Tutti senza volto.

Un luogo c'è. Il Mogadishu Stadium è stato per anni il malinconico riflesso d'una nazione scarnificata ed inerme.

Dal '91 l'oblio, il sole nascosto, i muri distrutti, i corpi crivellati.

L'occupazione militare

Negazione d'umanità, negazione del futbol.

Uno degli stadi più belli dell'intero continente nero improvvisamente prestato non a tacchetti e maglie colorate, ma a mitra ed uniformi mimetiche. Vent'anni d'abbandono forzato, tra arbusti e sedie, desolazione e paura.


 Paura. La stessa sensazione che attanagliava ogni ragazzino somalo durante il dominio delle forze islamiche capeggiate da Al-Shaabab. La pelota bandita perchè anti-religiosa, bambini messi al muro per un paio di palleggi, pronti a sfidare la morte per vedere quel cumulo di stracci sferico alzarsi in cielo.

Capre pascolano nella "foresta"
Una nazione divisa tra feudi e clan, vagabondante affamata ed intontita da condizioni irreali. Il governo fucilato interamente e la carestia del 2011 a rendere tutto ancora più disastroso.

Nel 2013, però, la speranza. L'Olimpico somalo viene ristrutturato, gusta di nuovo l'erba, quella curata e dipinta da linee bianche. Assapora la libertà di poter assistere a reti gonfiate, a cori trascinanti sulle tipiche melodie tribali.

Il Mogadishu Stadium come la Somalia, più della Somalia. Primo smeraldo in una foresta oscura, primo passo di riconquista in una terra inospitale.

Perchè il calcio muove popoli. Perchè il calcio segna strade da percorrere. Perchè il calcio dev'essere anche somalo.

Mogadishu Stadium oggi.

lunedì 14 aprile 2014

EROI MASCHERATI. ITINERARIO NEL CARNEVALE DEL FUTBOL. (PT.1)

di Gianmarco Pacione (per seguirci su FB clicca qui)
Rey Mysterio dopo una 619 al Barbera...o Miccoli dopo il gol alla Lazio.


 Pochi sofismi, poco Pirandello. Il fascino della maschera, volto coperto, celato. 

Frutto d’un infanzia esaltata dai vari Tiger Man e Rey Mysterio, Freddy Kruger e supereroi Marvel. Tanto tubo catodico, tante patatine ad assediare il mio inerme appetito e molte diottrie perse per strada. 

Il carro carnevalesco
La maschera, segno d’eclettica unicità. Deve pesare sul volto, pensavo. Deve pesare su sé stessi perdere l'identità, come colti da una sorta d'inebriante droga passeggera, discrezionale.

 Lanciano tutti caramelle, il volume del carro è assordante. Il caleidoscopio di colori e travestimenti non ha tempo e luogo: Rio, Venezia, Viareggio, no. Sono solo, seduto. Impugno stelle filanti e coriandoli. L'odore di vernice m'inebria, il terreno è soffice, sembra erba. Davanti a me un bus gigante senza tettuccio: le casse ai lati, appena sopra le ruote, gridano incontenibili. Volto la testa e per un istante scorgo una porta in lontananza. Linee bianche mi circondano, sono nel cerchio di una metà campo. Il carro davanti a me ha un'andatura lenta e divertita, è surfato da decine di uomini in pantaloncini e scarpe con tacchetti. Che sfilata è, dove sono finito?