domenica 29 dicembre 2013

SARÒ ROBERTO BAGGIO - AL VECCHIO PARROCCHIALE

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook cliccate QUI)



Soffiava un vento freddo lungo il campo desolatamente vuoto. Cominciava a fare buio e tutto intorno regnava il silenzio. Il Vecchio Parrocchiale di via Santa Viola dominava tutto il quartiere. Le finestre dei palazzi che lo circondavano su ogni lato del perimetro erano tutte chiuse: l'inverno, eh, l'inverno. Panni stesi a congelarsi e uccellacci grigi appollaiati sui balconi e sulle antenne della tv. Pietro era riuscito a scavalcare la recinzione, si era portato il suo pallone di cuoio ed era salito per le scale che portavano al campo: il suo Tempio. La domenica al Vecchio Parrocchiale non ci giocava nessuno da anni: il sabato la società del paese organizzava qualche partita per i pulcini, durante la settimana gli esordienti venivano ad allenarsi il martedì. Non c'era un filo d'erba, e grazie al cazzo.

sabato 21 dicembre 2013

"PIRATI A ST PAULI, BANDITI A ST PAULI"

di Gianmarco Pacione
A St Pauli i cori si lanciano così

Il calderone di colori sovrasta tutti i sensi, annebbia la vista. Teschi e luci rosse, teschi e strip clubs, teschi e cosce aperte. Scritte tedesche. Profumo deforme, di mare navigato giornalmente. Il sicuro fruscio di gonna usata mi chiama; una spogliarellista sta fumando sul retro d'un locale. Mi osserva avanzare. "Cazzo, il solito italiano rincoglionito" starà pensando spargendo consonanti rudi. Il tacco paga, mi fa sovrastare. Le chiedo dove siamo. Amburgo, zona portuale, risponde.
Il locale Ritze, uno dei più famosi della Reeperbahn

Dicono che la Reeperbahn calpesti in silenzio la reputazione di Amsterdam, che la capitale tulipana nel confronto diretto abbassi la testa e cambi direzione.

La spogliarellista, Karen, Kraken, Karmen, bah, mi allunga il pacchetto. Incoccia sul mio sguardo fisso a sud, su quel seno senza K, su quell'abbondanza dipinta da un teschio a capo di due ossa incrociate. Inizia qui l'onirico viaggio nel magico mondo del St Pauli fc.

Passeggiando tra marinai ubriachi di lozione femminile, mi ritrovo davanti al Millerntor-Stadium. Prato illuminato, sempre, dai raggi delle insegne erotiche. Illuminato come il chitarrista che strimpella appena sotto la gradinata. Cresta anni '80, ritmo pure. Una cavalcata di punk direttamente nelle vene. Il culto del St Pauli è nato proprio così, da note punk, da un ballo mancino.

Striscioni leggermente schierati ideologicamente
Eterni secondi della città fino al più impensabile giro di boa. Anti-nazisti, veneratori del Che. In molti li definiscono come il pubblico più a sinistra del mondo. Non ci vanno molto distante. Dal punk in poi un'escalation di novità epocali: campagne sociali continue per contrastare il razzismo, la violenza sulle donne, l'omofobia. Striscioni con svastiche distrutte, bandiere della pace. Amichevoli solidali con Cuba, mondiali per nazioni non riconosciute ospitati in casa.

Sezione calda della gradinata
Le corde si fermano per un attimo. Anche lui, sul polso, lo stesso Jolly Roger della spogliarellista. "Italiano?" s'accerta indicandomi. "Si". Non serve altro. Le corde tornano a muoversi, le parole anche, nel vento; sono mie, sono nostre però.

"Sull'orlo di una strada una gara di follia
contro il sipario amaro della xenofobia
canti d'agonismo e di emozioni da spartir
di cori lastricati d'incoscienza e d'avvenir
danzano sulla storia di giorni conquistati
figli della memoria, pirati a Saint Pauli
danzano sulla gloria di giorni conquistati
figli della memoria, banditi a Saint Pauli"

Nel '98 la sponsorizzazione Jack Daniel's
A cantarla i Talco, gruppo di Marghera. Strani incroci. Come la sponsorizzazione del '98 griffata Jack Daniel's. Come Littmann, primo presidente dichiaratamente omosessuale della storia del calcio. Come loro, quelle due ossa sotto il teschio, epiteto d'irrazionalità dichiarata.

Strade sommerse da velieri pirati, marinai e prostitute uniti nello stesso coro, senza fiasco di vino in mano, con un drappo librato in cielo. Lassù dove abbraccia il vento, da oltre trent'anni, il Jolly Roger ghignante. Lassù dove sportivamente mai potrà arrivare il St Pauli, società eternamente errante nelle serie minori con qualche picco in Bundes. Lassù, o più semplicemente quaggiù, nella Reeperbahn, dove il disordine è la delizia dell'immaginazione, dove la sinistra sconfina, folle, nella fede mistica legata ad una maglia, ad uno stadio e ad un quartiere, ad un popolo consciamente disperso nell'azzurro del mare dagli orizzonti più aperti.
 

  





domenica 24 novembre 2013

TRA QUELLI CHE NON CE L'HANNO FATTA: IL DECLINO DI ADU

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook cliccate QUI)



Land of opportunity, la chiamano così. Ed in effetti la Storia ci insegna che gli Stati Uniti hanno rappresentato per milioni e milioni di persone lungo i secoli la terra adatta a costruire un  futuro luminoso, la terra delle rivincite, dei sogni che diventano realtà: lontana dalle logiche europee, la cultura statunitense, spesso additata come povera e materialista, si è fondata (anche) sull'ideale del self-made man, “l'uomo che si è fatto da sé”, colui che è riuscito a sfruttare il proprio ingegno, il proprio talento e le enormi risorse del Nuovo Mondo realizzando obiettivi e raggiungendo mete che, altrove, sarebbero apparse solo come nebbiose aspirazioni. Sono migliaia le testimonianze artistiche, letterarie, cinematografiche che ruotano attorno al mito americano ma, ahinoi romantici un po' sadici, quasi nessuno parla, invece, di chi fallisce clamorosamente. Di chi arriva ad un passo e poi crolla, di chi è vinto dal destino, da chi finisce dimenticato nell'ombra, assieme alla schiera di “quelli che non ce l'hanno fatta”. Fra le pagine non scritte che raccontano l'”Altra America” merita una menzione considerevole anche un ragazzo nato nell'1989 in Ghana, catapultato a otto anni a Rockville, Maryland, grazie ad una green card vinta dalla madre, uno di quelli che comunemente chiameremmo “enfant prodige”: il suo nome è Fredua Korateng Adu, meglio conosciuto come Freddy Adu, e questa è l'impietosa cronaca del suo sogno sbiadito.

giovedì 14 novembre 2013

UNA BOTTA E VIA. L'AMPLESSO DI MATTEINI.

 di Gianmarco Pacione
L'esultanza di Matteini ad Avellino

Se solo potessi tornare indietro.

La testa intontita, stupefatta, è quella d'un tifoso, d'un amante.

Se solo potessi tornare in quel Novembre del 2005, se solo potessi cancellare dalla mente quella strana sensazione. Innamorarsi è bello, bellissimo.

Pescaresi presenti ad Avellino per l'1-3
All'epoca ero ancora poco più che bambino, abbagliato da quei gradoni dipinti di bianco ed azzurro, da quella nord gigante, in costante movimento. Era tutta una favola, respiravo la prima cotta abbracciando una sciarpa, seguendo cori trascinanti, lanciandomi in mischie dolorose. Vivevo di fascinazione, alternando le più sensibili, dolci farfalle allo stomaco, a urla becere, ad insulti che traboccavano incontrollati.

Era lavoro duro, durissimo, idolatrare un Cammarata in stampelle, un Bonfiglio scomparso dai miei ricordi di quasi tredicenne (forse grazie a Dio), un Croce esaltante, stranamente troppo.

sabato 9 novembre 2013

QUANDO IL PESO DIVENTA LEGGERO. ODE A SODINHA.

di Gianmarco Pacione (clicca qui per seguirci su Facebook)

"Un artista è attratto da certi tipi di forme senza saperne il motivo.
Fernando Botero.

Felipe Diogo Monteiro Sodinha

Le mattonelle sporche. Il terriccio di sempre, forato crudelmente da tacchetti appena docciati. La distinta svolazzante sul tavolo, baciata dal Borghetti del nostro dirigente appassionato di videopoker. Si è attardato per pisciare fischiettando. "Dai su, devi solo diventare un po' più leggero.".

Ricordo impresso, fisso.

Sodinha in azione con le rondinelle
La mia prima partita senza fuorigioco: sostituito poco dopo l'inizio della ripresa. "Mangia meno pasta!", l'urlo freddo servito con il tè bollente. Ossimoro da spogliatoio. Parole che scivolano aride nel flusso puro della memoria.

Un salto dimensionale: la rovina di un impero florido, costruito su tap-in a pochi centimetri dalla linea, su rientri difensivi mai accennati. Il braccio su, il fischietto rude, il mio sogno concluso. "Sei un bomber di razza", dicevano: si, di razza dalle ossa grosse. Quella corsa da "pinguino", usata solo per esultare mitragliando alla Van der Meyde genitori scettici, d'un tratto era diventata una costrizione, un freno, un infortunio privo di volto e causa: rientravo senza attenuanti nella categoria dei "ciccioni", lo facevo da plurimedagliato esperto in riso alla pilota e gite a fast food di qualsiasi tipo.

lunedì 28 ottobre 2013

DISCRIMINAZIONE TERRITORIALE: IPNOSI PER L'INETTO SUDDITO


di Gian Maria Campedelli (per seguire Parterre su Facebook clicca qui)


Di romantico, in tutto questo polverone, c'è ben poco. Dove vogliono arrivare, chi ha deciso che il calcio in Italia deve morire? Le note suonano gravi, niente armonia, l'amarezza ristagna, la rabbia si annida sotto la pelle di chi vive ancora per difendere passione e appartenenza.

venerdì 25 ottobre 2013

LAMPEDUSA: STORIA D'UN CALCIO ISOLATO.



 di Gianmarco Pacione

Onde urlanti, inermi. Delle barche muovono insicure, equilibriste nel buio sconosciuto. Migranti attonite, pescatrici di speranze.

Il faro dalla costa illumina scanditamente volti senza nome. Una stanca imbarcazione segue con gli occhi, però, altre luci artificiali. Contornano attente una terra dalle venature marroni, connubio di carnagioni mescolato con manciate di sabbia dorata. 

Din. Suona la traversa. 

Azione di gioco d'una gara casalinga del Lampedusa
Al “Grazio Arena” si stanno allenando i ragazzi del Lampedusa Calcio, come ogni sera. 

Calcio sperduto, calcio isolato. Sognatori danzanti nell’opaco anonimato, volteggianti su logori tacchetti. La loro GSD è di nuovo viva. Appena iscritta nell’ultima serie esistente, dopo mesi di puro calvario. La rinuncia alla prima categoria era stata un’inevitabile conseguenza: troppo alte le spese, troppo elevati i costi per spostarsi in Sicilia più di dieci volte all’anno. 

Sacrifici e sudore. L’obbligo di sveglia all’alba della domenica, l’aereo fino a Palermo e poi il pullman fino a Calatafimi, Capaci... Passione irrazionale, tutta lampedusana. Poi le beffe, continue, di molte, troppe società che nemmeno pensavano e penseranno a presenziare oltre mare all’incontro domenicale. Vittorie a tavolino, sconfitte personali inaccettabili, mortificanti. 

Le righe bianche risaltano, quasi fosforescenti, sulla placca africana. Le recinzioni sono traballanti. Implorano aiuto, tra smorfie atroci, dai tempi del passaggio papale e dal loro necessario abbattimento. Rendono il campo inagibile per quest'anno, obbligano il Lampedusa a giocare le gare casalinghe a Mondello.

Una bestemmia sibila nel cielo nuvoloso. Il pallone impatta, sordo, contro il legno. Allieta anime, gioca a torello. Lo fa tra le barche che popolano il cimitero, sorto sommessamente a lato del campo. Defunte macchine di morte abbandonate, ripudiate, lasciate marcire quasi per disprezzo. 
Sullo sfondo uno scorcio del cimitero delle barche

Un gruppetto di bambini sfida il cordone rosso di pericolo. Occhi brillanti, quelli di pochi eletti alla vista di una sfera rovinata. Il futbol respira a grandi polmoni la brezza mediterranea. 

L’impolverato “Grazio Arena” scambia uno sguardo con quella che sarà la sua nuova vicina, barcollante tra le onde. 

Gli occhi che ricambiano sono quelli di scuri figuranti. Presto, bisognosi d'un futuro, d'un lavoro, d'una qualche certezza, si troveranno a lasciare impronte nude, a dipingere le suole di rosso, a soddisfare quella biglia fatata che già conoscevano in terre lontane. Non curanti del presente, del passato, del futuro, della vita, della morte.

Un po' come i ragazzi in campo ora, vestiti a festa per il più affascinante rito pagano. Un po' come quest'isola lontanamente vicina a tutto. Un po' come questo calcio naif: ostacolato, emarginato, poeticamente pulsante, testardamente immortale.



sabato 5 ottobre 2013

PROIETTILI DI CUOIO. RITRATTO DI CALCIO SIRIANO.






di Gianmarco Pacione
Scorcio delle rovine di Damasco durante una partitella tra bambini
Poc-poc-poc. Le macerie respirano, vibrano. Bashar è seduto, solo. Lancia scanditamente parti di soffitto, lo capisce dal colore dell’intonaco.

La polvere offusca la vista, crea il peggiore dei miraggi. 

Centro del distretto di al-Mezzeh, Damasco, Siria. I colpi vicini non straniscono Bashar. Ha poco più di dodici anni, abbandonato ai suoi pensieri come ai cenci che veste, per inerzia, da mesi ormai.

Tre ragazzini siriani palleggiano
Guerra civile, guerra tremenda. La distesa di detriti è una compatta, funerea coperta per Haytam e Samir. Erano i suoi due migliori amici. Erano. 

Sirene, urla, tutto lontanamente vicino.

Bashar è scalzo, poggia attivo i piedi su una vecchia pelota, è l’unico ricordo rimasto di Haytam e Samir. È rotolata fuori quasi per caso, quasi per volontà altrui, dal grottesco tonfo di tonnellate di cemento.

Gli sporchi piedi continuano ad accarezzare il delicato cuoio.

Al-Mezzeh è una zona caldissima, proteste anti-governative alternate a prese di forza dell’esercito, attentati all’aeroporto militare, stragi alla moschea.

Immagine di Nuri Ibish
Il padre del dodicenne è un ribelle, la madre si limita a piangere. Sente le sue lacrime anche in questo istante Bashar, le sente sulla pelle, sulla fronte, sta guardando in alto. “Mamma non piangere, fammi stare qui a giocare ancora un po’ con i miei amici!”. La pioggia inizia a scendere commossa dal cielo di Damasco.

Corre Bashar tra le vie marchiate dai suoi doppi passi, dai sorrisi di bambini dagli occhi colmi di futbol e sparatorie, di vita e morte. Marchi delebili.

La palla si ferma, controllata, docile, sotto un muro sporgente, pericolante. Una targa, decrepita, recita sicura: “Nel 1920, qui, è nato il calcio in Siria”.

Bashar conosce bene la storia di quella partita. Per anni si è affacciato dal balcone immaginando l’epica scena, l’odore spasmodico ed eccitante della ricerca del gol, l’affannoso ululare di tifosi novizi ma pronti. La immaginava dipingendo immagini tra le parole di suo padre; quella era l’unica storia che avrebbe ascoltato per ore, per anni. “Se tutti i politici fossero come Nuri Ibish, la nostra Siria sarebbe un grande Paese.”, si sentiva sempre dire.

Nuri Ibish, la sua foto appena sotto la targa, ingiallita, umilmente fiera in questo deserto umano. Bashar imita la posa, marionetta in un teatro deserto, carica il petto superbo.

Ricco proprietario terriero, politico affermato della prima metà del ‘900, ministro del Gabinetto, pioniere unico del calcio siriano. Apprese regole, fascino e trascendentale armonia durante un viaggio nell’Inghilterra della Grande Guerra. Immediatamente corse a Damasco. Nel 1919 convinse le truppe inglesi ad allenare i suoi compaesani: non alla vita da trincea o a come centrare il bersaglio con maggiore costanza, semplicemente alla magica arte del football.

Il ministro Ibish, secondo da sinistra
Nel 1920 la prima partita, in quello spiazzo su cui ora sta pellegrinando un bambino assente; la vittoria degli artigiani di casa sulle truppe inglesi per 4 a 2, tra migliaia di siriani freddati calorosamente da un Cupido con la sciarpa al collo, con un due aste issato, con una palla impazzita tra piedi burberi ed incoscienti.



Una città unita, uno Stato innamorato irreversibilmente. 

Un re, Faysal I, talmente fiero dei giocatori siriani, da regalare ad ognuno di essi un orologio d’oro.

Luccichii sotto un maglione, distante pochi passi da Bashar. Ancora i piedi sporchi a divertire la pelota, a sollevare l’anima da questa nebbia irregolarmente illusoria, candida e compatta, da quest’etereo terrore mai domo, ammorbante, ormai banale.

Bashar muove il maglione di qualche centimetro, il luccichio aumenta, trascinando con sé, di forza, il battito del cuore. Un orologio d’oro del re Faysal, magari proprio quello di Nuri Ibish. 
Un ribelle supera armato un prato verde




Un proiettile. Un crudo, freddo, ghignante proiettile cullato dalla lana grezza dello scuro maglione.
Bashar carica il destro, il piede spoglio, come tutto il resto. Colpisce la targa, unica luce in queste tenebre. Le rovine vacillano. Mette il proiettile in tasca, abbandona il cuoio nella fanghiglia agonizzante.

Ha scelto, combatterà al fianco di suo padre per Haytam, per Samir, per diventare un giorno come Nuri Ibish e riportare la pace nel suo distretto, nella sua città, nel suo Paese.

Poco distante, proprio dove quella maledetta autobomba ha portato via la sua amata madre, la sua sicura casa, il neo combattente osserva un gruppo di bambini: hanno appena ricominciato a correre ed emozionarsi palla al piede. 

Gli spari sibilano, fischietti non retribuiti, incriticabili.
 
Il cielo è sereno ora, il sole asciuga il volto rigato di Bashar, di tutta al-Mezzeh.

“Tranquilla mamma, al limite piangeremo insieme.”.



lunedì 30 settembre 2013

PALLONE E AVANGUARDIA OPERAIA: IL CALCIO IMPEGNATO DI SOLLIER

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook clicca QUI)



Emblema un po' per sfida e un po' per convinzione. Di certo nulla di costruito, nella vita piena e impetuosa di Paolo Sollier. Un nome come tanti per molti, un simbolo per altri. Paolo Sollier è stato un operaio e un militante che prendeva a calci un pallone: soggetto atipico ed anomalo anche negli anni 70 (figuriamoci al giorno d'oggi), fu uno dei primi e più vivaci uomini d'avanguardia che alternarono le corse sui prati verdi o giallognoli di serie A (poca) e serie B (tanta) alla lotta politica nella sua veste più completa: simbolica nella sua forma esteriore, tormentata nella sua parte interiore.

giovedì 19 settembre 2013

FRATELLI DI HAGEN. GAMBINO, FEDERICO E MANNO.



di Gianmarco Pacione


“Giovà, ma come cazzo fai ad avere sempre una briscola in mano?”. La pizzeria Calabria è quasi vuota, fine serata. Pizzaioli e cuochi gustano i rimasugli nel tavolo all’angolo. Tricolori ovunque, psichedelica coreografia. 
Cadenze sicule, campane, italianismi misti, rinfrescati da pinte di Weizen.

Gennaro, il cameriere (la targhetta sul petto lascia pochi dubbi), liscia ancora una volta i capelli ingellati, viene anticipato costantemente dal naso statuario, solitaria vetta cresciuta all’ombra di sopracciglia tropicali. 

“Avete finito ragà? Qui si chiude.”. “Aspitt’ Gennà,  ultima partita.”.

Il pendolo bussa, l’una di notte. A tendergli la mano il calendario, 4 Gennaio 2003.

Una piccola televisione, appena sopra il bancone, scaglia notizie in una lingua cruda. All’improvviso il flusso di carte si ferma, pizzaioli e cuochi voltano la testa. “Oh! Oh! Parlano di voi.”. Il re di bastoni domina il tavolo. I tre ragazzi al suo fianco espirano nuvole di fumo.

Luci soffocate, ventole stanche.  

I tre calcetori di Hagen”, bofonchia un acneico Criscitiello germanico.

Salvatore Gambino esulta ai piedi della muraglia gialla di Dortmund
All’esterno delle pallide vetrine scorrono, come sette bello e primiere tra mani sicure, anonime utilitarie targate HA. La Lindenbergstraße è una strada come tante, come tutte le altre in questa scolorita città della Vestfalia.

“Juca!”. Il servizio si esaurisce, lo stacco sulla coscia modesta di Ina è interessante.

Il re di bastoni abbandona il trono. Salvatore, Giovanni e Gaetano si alzano ordinatamente dopo aver segnato i risultati su un foglietto. Raccolgono i tre borsoni alle loro spalle. 20 euro a testa di pizza e luppolo. Salutano con un cenno e spariscono nella foschia.

Gennaro li osserva. Sono italiani, come lui, come gli stendardi alle sue spalle. Italiani in terra straniera, sperduti nell’aspro e stantio nord tedesco, baluardi e figli d’una tradizione frammentaria, imprescindibile.

Federico in azione con il Viktoria
Orgoglio.  Ce l’hanno fatta, usciti da quel quartiere profumato, impregnato di basilico e sagne e ceci.

Sasà Gambino avanza in balia del pesante borsone. È un giocoliere tra le vespe, a Dortmund sta dipingendo novità tra incontenibili galoppate e palle visionarie. Pulce tra barbari giganti, eclettico dai lineamenti catanesi.

Giovanni Federico, anche lui poco più che ventenne, mangia campi nelle leghe minori, li divora. Nel Viktoria Colonia brinda alla sua razza rara, domenica dopo domenica, rete dopo rete. Sta camminando poco più dietro rispetto a Salvatore. Lo eclissa. Sembra un padre adottivo, guardia del corpo d’idee meravigliose, di piedi dorati.

 Alle loro spalle si allaccia le scarpe ‘Tano Manno. Coetaneo, sbadato. Talento paradossale, di quelli che affascinano. Gennaro l'ha già capito dal cerchietto sistemato laboriosamente ogni sera in quel tavolo centrale: non dominerà mai se non nei sotterranei tedeschi, colmi di pietre preziose ma introvabili, come lui.  
Manno in viola, sponda Osnabrück


Fratellanza. Il cameriere scatta, vola assieme alla cravatta d’aquile rosanero che tiene stretta al collo, il più dolce dei cappi. Apre la porta, la sradica facendo danzare tutta la giallognola vetrata.

“Oh! –i tre si girano- Certo che siete proprio tre bei minchioni in televisione!”.

Risata collettiva, mani che si salutano al ritmo di passaggi a livello.

"Ma'affanculo Gennà!".

Umile, ironica, potente italianità.

La stessa che terrà alta la testa a Sasà quando dovrà affrontere infortuni tremendi. La stessa che lo farà sorridere emozionato, dopo anni di calvario, davanti alle telecamere di Telesud 3, durante la presentazione in maglia trapanese. Lega pro, seconda divisione. Gennaio 2010. Quattro anni dopo l’addio al Signal Iduna Park.

Gambino a Trapani
La stessa che accompagnerà Giovanni nella sua lenta e famelica scalata. La stessa che gli farà vincere campionato e classifica marcatori della Zweite Bundes in maglia Karlsruhe e che poi gli farà indossare l'identico, nobile e mitologico, giallo del suo amico Sasà.

La stessa che strimpellerà insieme a Gaetano in campi malconci, ma mai riluttanti alla sua sconfinata onnipotenza estetica. Tra i viola di Osnabrück e gl’indagati blu di Paderborn. Tra una punizione a giro ed un tacco di troppo.

Ma ora Gennaro non sa tutto questo, il suo futuro è racchiuso nel prossimo vortice dell'apatica ventola. Si limita  a riaprire l’usurata porta chiudendola dietro sè. Non ha ancora abbandonato il sorriso di qualche istante prima. Cuochi e pizzaioli hanno già sparecchiato, sono tutti seduti al tavolo centrale. 

“Se ne sono andati, finalmente. Ancora un po’ e jucavano fino a domani. Ja, faccio io le carte, e chi perde si deve mette' la maglia della Germania!”. 











sabato 24 agosto 2013

ARRIVEDERCI ESTATE, NON CI MANCHERAI...

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook CLICCA QUI)



E' arrivato il giorno. Quello che per tre mesi attendi maledendo quotidiani sportivi e amichevoli estive giocate camminando in alta quota. Il giorno di cui si parla e fantastica camminando su litorali affollati, con gli occhi che brillano d'eccitazione perché ogni minuto che passa è un minuto in meno al traguardo. Il giorno dei grandi ritorni, il giorno attorno al quale ruotano umori, emozioni, gioie e delusioni; il battesimo di un altro anno all'inseguimento del brivido giusto, del momento supremo. Alla caccia di una vittoria, di una salvezza, di una degna sopravvivenza o, impresa più ardua di tutte, di un'identità.

La nuove Serie A 2013-2014 (foto: Sportlive.it)

E' arrivato il giorno in cui il bambino diventa grande e il grande ritorna bambino, dove si rovesciano gli equilibri di un mondo complicato e un po' bastardo. Il giorno in cui si rompono gli indugi, il giorno in cui finalmente ci si deve schierare, da una parte o dall'altra, in mezzo mai. Quelli in mezzo non partecipano alla festa, nemmeno vengono invitati.

E' il giorno in cui l'avvocato ritorna a battere le mani a fianco dell'operaio, il giorno in cui il figlio dell'industriale ricomincia a perdere la voce con il figlio del cassintegrato: è il giorno in cui tornano a farsi vivi gli incubi dei questori, il giorno in cui gli infami festeggiano perché avranno di nuovo qualcosa su cui scrivere o qualcuno contro cui puntare il dito.

E' anche il giorno in cui qualcuno ricomincia a correre e qualcuno torna a caricare, il giorno in cui nascono maledizioni da graziose labbra femminili, il giorno in cui le coppie figlie del solleone saltano in aria, il giorno in cui le mamme iniziano di nuovo a raccomandarsi con occhi amorosi ma stanchi.

E' arrivato il giorno delle lacrime rabbiose, delle bestemmie imboccando la via del ritorno, della birra calda e un po' sgasata, dei Borghetti lanciati aspettando il rumore di plastica sul cemento, di torce e sbirri e tensioni e boati ad un gol o per un rigore parato.

E' arrivato infine, facendosi attendere come l'ospite più gradito e desiderato, provocato e coccolato, accompagnato dagli ultimi caldi e vestito dei colori di un'estate che, per noi, dura sempre troppo tempo.

E' giunto sino a noi preceduto dalla numerosa fanfara di tamburi immaginari e cori masticati per scaricare l'adrenalina. Perché fino ad ora le gradinate son rimaste vuote ma si canta sempre, anche davanti ad uno specchio o in coda in autostrada. Così. Perché innamorati lo si è sempre, anzi, nei momenti di noia e difficoltà ancora di più, fino allo sfinimento. Il bello viene adesso: basta gitarelle serene in oasi silenziose, basta domeniche composte al fresco di un ombrellone, basta calciomercato, basta maledette vacanze.


Si torna a soffrire. Finalmente.   

venerdì 16 agosto 2013

Figli del mare, figli di Tuvalu: PENISULA e SEKIFU


 di Gianmarco Pacione (per seguirci su Facebook clicca qui)
Funafuti: l'atollo più grande di Tuvalu. In basso a sinistra l'unico campo da calcio della nazione.

Puntuale, rituale. Tokotasi sta gesticolando scenograficamente, sommerso da barba e occhi puerili. Ha abbandonato “Tofaga”, la sua stanca barca, da una trentina di passi sabbiosi, solo per accorrere a quella predica, la sua predica, ormai conosciuta da ogni singolo abitante dell’arcipelago di Tuvalu.

Partita dopo partita, pesce dopo pesce, bambino dopo bambino, la leggenda non muta, esce dalle sue labbra come un soffio dalle conchiglie, accompagnata da note ondose, dalle turbolenti  maglie azzurre della nazionale che si riscaldano a poche file legnose di distanza.

La zona centrale della gradinata
“Un tempo, quando gli abitanti dei nove atolli potevano sfiorarsi da una spiaggia all’altra, vi fu un ragazzo, Malakai. Coltivava delle piante di cocco poco lontano da qui. Una mattina Malakai trovò delle piante completamente tagliate, derubate dei loro frutti. Poche settimane dopo il furto si ripeté. Accadde poi una terza volta. Allora Malakai pensò per ore guardando le sue piante e si accorse come il ladro lo colpisse solo nelle notti di luna piena. Così il giovane attese sveglio e nascosto per notti e notti, fino a quando non giunse il colmo chiarore successivo. Iniziò a sentire voci di uomini e donne, poi il fruscio dei rami colpiti. Allora sparò, facendo fuggire i ladri, rincorrendoli nella spiaggia. Riuscì a raggiungere una giovane ragazza, la strinse a sé, ma proprio in quell’istante gli altri si tuffarono in mare, trasformandosi in delfini. Malakai portò la donna al villaggio e la sposò, donandole due figli. Poi, una sera, la giovane disse addio ai due figli ed al marito, si gettò in acqua e tornò ad essere un delfino. I suoi due figli diventarono i due pescatori ed i due calciatori migliori della nazione. Eccoli lì – urla Tokotasi, indicante tra la folla meravigliata – Penisula e Sekifu, gli eroi di Tuvalu.”.

Scricchiola la gradinata, piccolo centro d’una storia che mai è stata e mai sarà scritta. Non è gremita. I pochi presenti si allontanano da Tokotasi con il calcio d’inizio in vista; hanno l’aria di giovani confessati in attesa della comunione.

Uno scorcio di Tuvalu-Tahiti
L’anziano cantastorie osserva compiaciuto, arriccia la barba. Le nuvole hanno sostituito le sue parole, ora sono loro a danzare sulle instancabili note ondose. Lo fanno insieme alle undici maglie azzurre impegnate contro la Nuova Caledonia.

Il fischio d’inizio. Tokotasi è consapevole, per un lunghissimo istante, d’essere inconsapevole.

Inconsapevole d’appartenere alla seconda nazione meno popolata della Terra, con solo 9929 abitanti. Inconsapevole d’essere in uno stadio dalle dimensioni irrisorie: il Tuvalu Sports Ground, capace d’ospitare 1500 spettatori in un unico settore dal sapore esotico.

Contorno di piante, erba, mare, di gustose pennellate di Gauguin; non potrebbe essere differente per l’unico campo di calcio regolare presente in questo Stato. Unico. Troppo fini le lingue di terra dei nove atolli, troppo forte la stretta dell’oceano Pacifico per ospitare più d’un conforme prato verde.

La partita è bloccata, o meglio, la partita è inguardabile. Una sorta di sfida alle massime vette dell’orrendo, talmente inesplorate dal risultare, per certi inspiegabili versi, affascinanti. Palloni che viaggiano morbidi come pietre in un flipper. Palloni che si perdono oltre la collina, tra la sabbia dorata. Palloni stuprati, maltrattati.

Maukobe Penisula
Tokotasi sfrega le mani in una tasca, le unisce coprendo un amuleto. È in legno, come quasi tutto qui. È  intagliato a forma di delfino.

La chiusura difensiva di Penisula, signorile, fuori luogo. Il suo coast-to-coast senza il minimo controllo, la palla dentro per l’inserimento di Sekifu dalla mediana, a bucare i centrali Caledoniani.

“Guarda i tuoi figli!”, Tokotasi alza l’amuleto. La rete si gonfia, pare segua il movimento degli alberi di cocco mossi dal vento.

La gioia. Tokotasi come Bruce nella Kop, come Marco della Fiesole, come Paul nella muraglia gialla.

Le urla. Trasportate dal vento in ogni casa, in ogni isola dell’arcipelago, in ogni barca di questi 26 chilometri quadrati.

Il cuore che si riempie della signora Kalea, intenta a pulire il pesce. Ora sa che suo nipote sta vincendo. Le espressioni interrogative di turisti avventurosi, fermi davanti ad un aereo giapponese abbattuto durante la seconda guerra mondiale, maggior attrazione dell'entroterra di questo paradiso sperduto tra Hawaii e Australia. Il volto di Uota che si gira alla ricerca dello Sports Ground. Sta cavalcando l’azzurra “Tofaga” del padre, confondendosi con tutto ciò che lo guarda dall’alto e dal basso. Kolone ed Etimone che continuano a rincorrersi, non curanti del boato, ai margini della pista dell’aereoporto di Vaiaku, villaggio più importante di Tuvalu. Lo sanno i due bambini, oggi non arriveranno aerei, arrivano solo tre giorni a settimana quei mostri del cielo qui.

Viliamu Sekifu
Si abbracciano i due fratelli del mare, lo fanno a lungo vicino alla bandierina. Penisula è stato il primo a lasciare il suo Paese cercando fortuna, come calciatore professionista, nelle Fiji. Per adesso è ancora il solo ad averla trovata.

Sekifu ha tagliato un altro traguardo storico, gonfiando la rete contro Tahiti nel 2007. Facendolo per la prima volta, nella sua patria, in una partita valida come qualificazione al Mondiale.

Il fischio arriva, di nuovo. Questa volta bussa tre volte alle orecchie tuvaluane. 1-0 alla Nuova Caledonia. Sekifu e Penisula si abbracciano, si stringono forte l’un l’altro, di nuovo. Tokotasi si asciuga le lacrime con le mani ancora chiuse, a protezione del suo sacro amuleto. I due figli di Malakai lì, davanti a lui. Ancora un brivido, un istante, questa volta di cruda consapevolezza. Le orecchie ora ascoltano un frastuono, non è più un melodico accompagnamento. Sta avanzando l’oceano, come sempre, inarrestabile.

“Dicono che manchi poco, saremo sommersi tutti. D’altronde viviamo in terre che si alzano, al massimo, poco più di quattro metri sopra il livello del mare. Cambiamento climatico, surriscaldamento. Non capisco, l’oceano un tempo ci abbracciava, sembrava uguale a Sekifu e Penisula. Ora ci sta stritolando. Ci mancano il respiro, il futuro”.

Tokotasi osserva il mare a destra, a sinistra, ovunque l’orizzonte è azzurro. Come Malakai capisce chi è il ladro, capisce chi, ogni giorno, gli sottrae un lembo di terra, un lembo d’anima.

Tre delfini nelle acque Tuvaluane
Il vecchio pescatore alza improvvisamente il suo tesoro, lo tiene saldo, radicato nelle sue braccia nodose ma fiere. Che lo stritoli pure l’oceano, che sommerga la sua casa, che distrugga la sua “Tofaga”, che inondi il Tuvalu Sports Ground. Che gli neghi pure la patria, l’identità.

Sekifu e Penisula si voltano verso la gradinata, uno sotto il braccio dell’altro. Incrociano volutamente lo sguardo con Tokotasi, poi lo spostano, religiosi, verso l’intagliato legno mistico. Cinque, dieci, trenta secondi. Gli occhi di due figli che omaggiano la propria genitrice. Poi eccoli tornare a Tokotasi. Un cenno, un gesto con il capo quasi impercettibile. Avanti e indietro. Innegabile affermazione.

L’asceta narratore di leggende nuoterà con loro. Lo farà la prossima notte di luna piena, lo farà per sempre, anche con la sua amata Tuvalu completamente soffocata dall’oceano. Cavalcherà le onde sul dorso di Sekifu e Penisula, stringendo forte tra le mani la loro madre, proprio come fece il giovane Malakai quando ancora gli abitanti degli atolli potevano sfiorarsi da una spiaggia all’altra.    
La gradinata del campo di Funafuti