domenica 29 dicembre 2013

SARÒ ROBERTO BAGGIO - AL VECCHIO PARROCCHIALE

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook cliccate QUI)



Soffiava un vento freddo lungo il campo desolatamente vuoto. Cominciava a fare buio e tutto intorno regnava il silenzio. Il Vecchio Parrocchiale di via Santa Viola dominava tutto il quartiere. Le finestre dei palazzi che lo circondavano su ogni lato del perimetro erano tutte chiuse: l'inverno, eh, l'inverno. Panni stesi a congelarsi e uccellacci grigi appollaiati sui balconi e sulle antenne della tv. Pietro era riuscito a scavalcare la recinzione, si era portato il suo pallone di cuoio ed era salito per le scale che portavano al campo: il suo Tempio. La domenica al Vecchio Parrocchiale non ci giocava nessuno da anni: il sabato la società del paese organizzava qualche partita per i pulcini, durante la settimana gli esordienti venivano ad allenarsi il martedì. Non c'era un filo d'erba, e grazie al cazzo.


Di inverni così freddi e piovosi lì se ne ricordavano pochi, quindi se ti aspettavi che ci fosse l'erba ti sbagliavi di grosso. L'erba resisteva da inizio settembre a fine settembre. Un mesetto, poi spariva. Falcidiata da tacchetti e goffe entrate di piccoli diavoli in pantaloncini corti. A dirla tutta, oltre a mancare l'erba il Vecchio Parrocchiale era pieno di buche. Piccole, medie, grandi. Di ogni varietà, dalla buchetta fastidiosa che ti fa saltare la palla prima di un tiro a botta sicura alla buca che se non ci stai attento ti porta via la caviglia. E la carriera. Ammesso che tu un giorno ne abbia una. 

Qualcuno diceva che quel posto ricordava Highbury. Pietro non sapeva chi fosse stato lo stronzo ad essersi inventato una cosa del genere ma più cresceva e più si convinceva del fatto che chiunque fosse stato doveva essere molto ubriaco quel giorno. Lui Highbury l'aveva visto: suo cugino Gabriele gli aveva portato delle foto da Londra e al Vecchio Parrocchiale non ci assomigliava proprio per un cazzo. C'erano due piccole file di tribune, l'una di fronte all'altra sui lati lunghi del campo. Settore locali e settore ospiti, probabilmente. O almeno così doveva essere nella mente del progettista, anni e anni prima. In realtà la tribuna che doveva essere degli ospiti andava sempre deserta: d'inverno su quel lato ghiacciava sempre e la distanza dal piccolo chiosco che vendeva caffè e brulé diventava proibitiva. Lo gestiva Nestor, un simpatico grassoccio che aveva l'abitudine di lavorare con la tuta dell'Atalanta. Sempre la stessa, da una vita. Ecco il nostro Highbury, il Vecchio Parrocchiale desolato, crocevia di silenzi e ubriacature per sopportare il freddo dell'aspra pianura. 

Highbury (o il Vecchio Parrocchiale?) un po' di anni fa
(foto: Arsenal.com)
Pietro se ne stava seduto sulla panchina di ferro verde oramai in buona parte arrugginito con il pallone – un bel Mitre comprato la settimana prima con i soldi di Natale – tenuto stretto allo stomaco e una sigaretta accesa a spezzare l'aria. Fumava da un po' ma aveva solo dodici anni, colpa di uno zio poco responsabile e del brutto giro dell'oratorio. Il pacchetto di Camel, un Mitre, un cappellino di lana, un vecchio paio di Diadora. Quelle lì che abbiamo avuto tutti, nere e gialle, retaggio dei favolosi anni 90 che si erano appena conclusi. Guardava fisso verso una delle due porte con i pali scrostati e le reti che ricordavano molto quelle dei Mondiali vinti dall'Inghilterra nel 1966. Lo sguardo concentrato. Lo faceva sempre: gli serviva per immaginarsi la scenografia adatta. Chi voleva essere quel giorno? Dove voleva essere? Quando? La storia si ripeteva ogni domenica, da quando aveva scoperto che il Vecchio Parrocchiale era terra di nessuno nel giorno del Signore. Era stato Maradona, era stato Pelé, Signori, Chiesa, Vieri, Bergkamp, Ginola... era stato persino Bierhoff. Ad un tratto, l'illuminazione. 

"Sarò Roberto Baggio".

S'alzò dalla panchina lanciando oltre la rete la sigaretta nel gelo ormai spenta da qualche minuto. Via il cappellino. Era l'inizio rituale della sua cerimonia d'immedesimazione. Chiudeva gli occhi, da solo in mezzo al gelido silenzio di un campo che non aveva più nemmeno le righe bianche per terra, e sceglieva il giorno, la partita, il gol. Doveva riprodurli fedelmente e nel frattempo doveva anche improvvisare una cronaca per tener aggiornati gli spettatori che seguivano il campionato tramite radio. Il Vecchio Parrocchiale che fu il San Paolo, fu il Maracanà, fu San Siro, fu l'Olimpico, fu il Friuli e l'Old Trafford (ma mai Highbury, per rispetto) quel giorno si trasformò nel Delle Alpi di Torino. Odiava quello stadio perché odiava la Juve e gli faceva schifo com'era stato costruito. E lui se non fosse diventato calciatore, da grande, avrebbe voluto fare l'architetto quindi di queste cose, ovviamente, pensava d'intendersene abbastanza. Malgrado la manciata di gradi sotto lo zero era il primo d' Aprile. Dell'anno precedente, il 2001. Il Delle Alpi, ex Vecchio Parrocchiale, ospitava trentacinquemila persone quel giorno. Al crepuscolo ormai imminente si sostituì un sole d'inizio primavera. Pietro era lì, immerso nel suo mare d'immagini, voci, ricordi. “Com'era andata quell'azione, com'era andata”, se lo chiedeva freneticamente perché voleva che ogni particolare fosse al suo posto. Non poteva deludere i tifosi, i radioascoltatori, qualche anziana che, ne era sicuro, la domenica si era accorta di lui e si divertiva a spiare le sue solitarie imprese. Altra illuminazione.

Quattro minuti dalla fine, la Juventus è avanti. In campo c'è persino Athirson che ha sostituito Zidane qualche minuto prima. A Pietro scappa da ridere. C'è un giovane con il 5 nelle file delle Rondinelle, si chiama Andrea Pirlo. Viene dall'Inter, è uno che coi piedi ci sa fare. Riceve palla a centrocampo, non alza nemmeno la testa. Annusa l'aria, compone una melodia leggera come un canto d'usignolo, una melodia che deve spegnersi esattamente sul piede di quello che sta là davanti. Quello con il codino. Ed è proprio così che va: il numero 5 regala la sua arte al primo violino dell'orchestra, il più grande di tutti. Il lancio è perfetto, ma è tanto perfetto quanto difficile da sfruttare, perché mancano quattro minuti al triplice fischio, perché giochi contro la Juve e soprattutto perché appena ricevi quel gioiello hai di fronte uno che sfiora i due metri, Edwin Van Der Sar, e allora o ti inventi qualcosa di impensabile, qualcosa che trascenda ogni categoria di gioco, qualcosa che vada oltre il tempo e lo spazio o tutto diventa vano. O sei Roberto Baggio o è tutta un'illusione maledetta. Ma tu sei Roberto Baggio.

Non servono didascalie o spiegazioni.
La difesa della Juventus è tagliata fuori, Baggio riceve palla quasi senza nemmeno vederla arrivare. Sembra tutto scritto da Dio. Doveva andare così: l'Eterno ha scelto i suoi interpreti. Il pallone viene accarezzato dal destro del Divin Codino. E' una carezza come quelle che a quindici anni dai al tuo primo amore. Di nascosto, seduti al parchetto dopo esser usciti di casa con la scusa più sciocca per evitare di dire a mamma che ti vedi con Lei. Ecco, Baggio fa così, accarezza la palla sottovoce, la nasconde. Nasconde il suo genio. Lo nasconde talmente bene che nemmeno Van Der Sar, che è lì a un metro, capisce cosa stia accadendo. Quando intuisce è troppo tardi, si getta goffo e rassegnato. Roby è già di là. Ha accarezzato il suo tenero amore e ora lo sta accompagnando lungo un trionfale avvenire. Un tocco. E' bastato un tocco per fare tutto ciò che uno normale avrebbe tentato di fare in un tempo infinitamente più lungo, in maniera infinitamente più umana, con risultati infinitamente più deludenti. Un tocco, ed è già tutto scritto. La porta è vuota ed è la metafora di un cielo infinito che si schiude di fronte alla bellezza dell'inestimabile genio. Appoggia di sinistro, lentamente, quasi a illudere tutti. Tutti quelli che non ci hanno capito nulla e sono nati, vissuti, morti in quei due secondi. Due secondi o poco più.



Pietro riapre gli occhi e si accorge che è buio pesto. Si volta, si guarda attorno, spaesato. Per immaginare il soffio di una manciata di attimi ci ha messo un'ora intera. Poi capisce: è la sua terza illuminazione. Capisce che tra tutti i grandi di cui ha indossato le vesti e riprodotto le gesta, quel Baggio era troppo persino per lui. Nonostante lui avesse segnato da centrocampo al volo contro il Verona, nonostante avesse segnato in finale in Coppa del Mondo con la maglia del Brasile. Abbassa lo sguardo, sconfitto sul prato del suo Vecchio Parrocchiale. A casa sua. Dalla tasca tira fuori una Camel. Se l'accende sbuffando, rimanendo inchiodato al centro del campo. Chissà che ora si è fatta. Sembra un uomo triste nel corpo di un bambino ancor più triste. Sputa per terra, calcia la palla ancora pulita verso la panchina.


“La prossima volta devo ricordarmi che è meglio se provo a diventare Vugrinec, che Baggio è troppo forte".

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