I gloriosi tempi andati: non serve
andare troppo a ritroso nel tempo, lungo gli scorsi decenni, per
avere nostalgia. Nostalgia di un calcio che, in Italia, sta
lentamente scomparendo: il calcio degli stadi pieni, delle trasferte
libere, del tifoso al centro del gioco. Un modo di vivere il pallone
e la fede per i propri colori che ha subito, in particolare dal 2009
in poi con la creazione della famigerata “Tessera del Tifoso”,
una rivoluzione obbligata e dissennata, spaccando a metà l'Italia del tifo e, soprattutto, minando la dignità di chi ama visceralmente questo Gioco.
Striscione dei tifosi della Roma contro i divieti e le restrizioni imposte con la Tessera del Tifoso (foto: dallapartedeltorto.tk) |
Lungi da me cavalcare facili populismi
a riguardo, lungi da me, in questa sede, schierarmi dall'una o
dall'altra parte, a favore o meno di chi ha deciso di tesserarsi: l'amaro compito che mi propongo di svolgere è
quello di osservare e constatare. Osservare una realtà in continuo
mutamento, figlia dell'unione di molti altri fattori oltre a quello
sopracitato, una realtà deviata da un sistema con un chiaro
obiettivo: eliminare la cultura ultras e cancellare il calcio come
sport “popolare”, elevandolo ad un livello “elitario”,
rendendo lo stadio un teatro, con tutte le negative implicazioni del caso.
Poco importa, poi, se il teatro in questione cade a pezzi, non ha
l'idoneità, è fatiscente, difetta di servizi: ciò che conta è
ammaestrare, attirare a sé un pubblico silenzioso, impomatato,
distratto, annoiato. Un pubblico vuoto e, soprattutto,
sufficientemente benestante.
Tifosi finti sulle tribune del "Nereo Rocco" di Trieste, stagione 2010/2011 |
Non v'è solo la Tessera del Tifoso a
turbare le notti del tifoso italiano: la crisi finanziaria ha
allungato i suoi tentacoli fino alla sfera dell'economia reale,
rischiando di affondare anche il nostro Paese e colpendo, com'è
logico, soprattutto le fasce sociali più deboli. Disoccupazione,
abbassamento dei redditi, innalzamento del numero di italiani che
vivono al di sotto della soglia di povertà: non è un articolo di
economia ma alcune precisazioni servono a comprendere meglio perché
il calcio italiano continua a boccheggiare. Oltre a questi fenomeni
congiunti, oltre alla liberticida scelta di schedare preventivamente
qualsiasi tifoso che voglia seguire la propria squadra anche al di
fuori delle mura di casa, v'è da segnalare il quasi totalmente
diffuso aumento dei prezzi dei biglietti. Lo stadio diventa un
privilegio: nessun incentivo (se non sporadici tentativi che non
comportano nessuna particolare incidenza positiva per i tifosi),
costi spesso raddoppiati rispetto a dieci anni fa, eppure (escluso il
caso Juventus Stadium) stadi e servizi fermi a Italia 90. Il
risultato, sempre più amaro e marcato, è un panorama desolato:
dalla serie A alle categorie inferiori, gli spalti si svuotano e,
come conseguenza, le stesse società perdono ricchezza, introiti,
futuro: vi sono le grandi società in grado di coprire alcuni costi con le entrate derivanti dalle entrate dei diritti tv, ma tutte le altre? Il potere di Tele+ e Stream prima, arrivando fino a Sky (il suo avvento fu a metà degli anni 2000) è un ulteriore fattore negativo che ha portato i campionati a subire assurde modifiche di calendario e orari in modo da potersi adattare perfettamente alle necessità dell'operatore televisivo, senza tener conto delle necessità e degli ostacoli dei tifosi che, il più delle volte, devono rinunciare a partite (casalinghe e non) a causa di, ad esempio, giustificati impegni lavorativi. Ennesimo esempio della poca considerazione e dell'esiguo rispetto che istituzioni, club e tv nutrono nei confronti dell'essenza del gioco. Se l'unica soluzione prospettata sarà imitare il modello nord-europeo
(più facilmente raggiungibile a livello di presunta “qualità”
del tifoso più che a livello di infrastrutture, selezionando ed
eliminando le tifoserie organizzate) questo significherà pugnalare
ancora una volta l'anima e lo spirito del calcio italiano. Un calcio
che ha vissuto epoche d'oro a prescindere dal volume di soldi che
transitavano nelle sedi societarie o attraverso i palcoscenici del
calciomercato. Un calcio che ha avuto in generazioni di tifosi e
tifoserie attive e libere di seguire la propria fede su e giù per la
Penisola la più grande forza, il più grande orgoglio.
Ironico striscione del CAV contro il calcio-spezzatino (foto: dodicesimouomo.net) |
Sciocco, cieco o in malafede chi ancora
crede che il calcio sia fatto solo di giocatori e soldi: privare il
pallone del calore e del colore del tifo significa, in primis,
soffocare lentamente e inesorabilmente un gioco che, storicamente, è
essenza pregnante della nostra Nazione. Tentare di elevarlo da sport
popolare a sport “elitario”, fruibile solamente dalla fetta di
società che può permettersi di sostenere i costi sempre più
proibitivi dei biglietti e lasciare che le trasferte muoiano,
agonizzanti e stritolate nel ricordo dei fasti del passato è un
peccato mortale.
Dai finti tifosi applicati sulle
tribune del “Rocco” di Trieste alle lamentele di La Russa per la
futura mancata concessione delle tessere omaggio Coni in favore dei
politici, ne abbiamo viste fin troppe. E la sensazione, di domenica
in domenica, sotto la dura scorza di innamorati con la quale ci
difendiamo, è che la consapevolezza del malessere che attanaglia le
nostre fedi si stia facendo largo sempre più, passando da una fase
di protesta e indignazione ad una pace armata che sa tanto di futura
sconfitta. Nei nostri cuori si combatta, ma non solo, per difendere
il diritto a sognare ancora i gloriosi tempi che furono: per il bene
del calcio e per il bene di un Paese che sente il disperato bisogno
di evadere, di correre, di soffrire. In treno di ritorno da Napoli o
in autogrill dopo aver espugnato Firenze, in autobus rincasando a
Bologna o in auto con gli amici dopo averle prese all'Olimpico.
Continuino a soffocare il tifo e cancelleranno l'unico volto umano
rimasto per il quale il calcio vale ancora la pena di scendere in
strada.
Gian Maria Campedelli
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Gian Maria Campedelli
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Il "tifo" era anche una valvola di sfogo e di "controllo" della naturale aggressività umana che - con le dovute proporzioni - una volta - prima dell'avvento dell'atomica - era prerogativa della guerra. Aggressività che ora dovrà sfogarsi da qualche altra parte. Dove si sfogherà questa aggressività? sulla famiglia o su se stessi? Grazie democrazia! Hai rovinato pure questo!
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