Lontano dalle avvolgenti pressioni
delle grandi città, lontano dalle trafficate metropoli, dal calcio
internazionale, dalle coppe il mercoledì. Una storia che si schiude
e svolge in un'altra Italia, in terra di Sardegna, dove il tempo
sembra scorrere più lento, compassato: un altro ritmo, l'impressione
di esser fuori dall'Europa, a metà fra l'America meridionale e
qualche altro paradiso tropicale. L'ambiente ideale, la cornice
perfetta per dipingere calcio. Poco importa se si è in periferia.
Daniele Conti è l'uomo saggio che della bellezza di questa terra si
è nutrito, dipingendo con la palla ai piedi, fondendo il calore
della terra che rappresenta con la delicatezza delle sue giocate.
La
cristallina commistione di grinta, tenacia, classe, potenza. Il
luminoso simbolo di una città (e non solo) che dopo oltre tre
decadi, dopo lo Scudetto del 1970 e le leggendarie gesta di Gigi
Riva, ha ritrovato una guida orgogliosa. Paragonare calcisticamente i
due è un gioco pericoloso e privo di senso. Altri ruoli, altri
tempi. Camminano entrambi, però, l'uno accanto all'altro, nella
storia. I lineamenti duri, squadrati e furiosi di Riva, i lunghi
capelli castani di Conti, al cadenzato ritmo dei suoi passi. Leader
maturo e generoso, figlio adottivo di una piazza di periferia con una
passione infinita per il pallone.
Conti a segno all'Olimpico contro la Roma |
Il destino di Daniele sembra essere
stato scritto con il glorioso inchiostro delle imprese del padre,
Bruno, bandiera della Roma degli anni ottanta e protagonista della
straordinaria vittoria italiana ai mondiali di Spagna '82. Daniele si
mette in mostra nelle giovanili della squadra giallorossa, assieme al
fratello Andrea. Figli di una leggenda che, precoci e talentuosi,
sembrano iniziare a farsi spazio in una piazza infuocata, dove l'odio
e l'amore corrono su sentieri vicinissimi ma paralleli, senza
toccarsi mai. Esordiscono entrambi nel 1996-1997, alla guida della
Roma c'è l'argentino Carlos Bianchi. E' una Roma strana, quella. Ci militano giocatori talentuosi, alcuni futuri vincitori del tricolore qualche
stagione dopo, ci giocano giovani promettenti e, come sempre, c'è
anche chi non è all'altezza. Sostituito Mazzone, in quella stagione
si alternarono Bianchi e Liedholm. Nessun trionfo, nessuna
vittoria. Una stagione mediocre, il dodicesimo posto in campionato,
solamente il secondo turno in Coppa Italia e il mancato approdo agli
ottavi di finale in Coppa Uefa. Annate del genere, si sa, spesso sono
occasione per buttare nella mischia giovani promesse che non hanno
nulla da perdere ma tutto da guadagnare. Ed ecco che Daniele e
Andrea, uniti sotto lo stesso cognome e sotto gli stessi colori,
assaggiano la Serie A. Sembrano prologhi ad introduzione di una
storia scontata. Il calcio sorprende, straccia copioni
meravigliosamente scritti per sostituirli con altri, enigmatici e
ruvidi: è quello che accade ad Andrea, prima, e a Daniele poi. Il
primo, che gioca da attaccante, viene mandato a Carpi: quello che
sembra un arrivederci diventerà un addio vero e proprio. Andrea gira
tutta l'Italia, da una serie minore all'altra, senza più accarezzare
il sogno di far ritorno a casa. Daniele, invece, può ancora
lasciarsi coccolare dall'idea che l'impresa di scrivere, come fece
suo padre, la storia della sua città non sia così azzardata. Rimane
a Roma altri due anni: dal 1996 al 1999 vedrà il campo solo in
cinque occasioni (tre gare di campionato e due di coppa Italia)
condendo la fugace avventura giallorossa con un gol, contro il
Perugia. Il curioso svolgimento di quella partita vuole che Daniele
venga poi espulso per eccesso di esultanza. Come se tutto il suo
amore per Roma, tutta la sua dedizione, tutti i suoi sogni si fossero
addensati incontrollabili e furiosi in pochi minuti. Una potenziale
carriera concentrata fatalmente in un solo giorno. Roma non è nel destino di
Daniele. Diventerà leggenda, idolo, esempio, condottiero, ma lontano
da Trigoria. Lontano dal padre, lontano dall'Olimpico, lontano da
quei colori che sembravano essergli stati cuciti addosso e che,
invece, dopo tre anni sembrano esser stati lavati via dalla distanza
che lo separa dal gioco. Troppi sono quei metri fra la panchina e
l'erba.
Daniele arriva a Cagliari a vent'anni,
giovane di belle speranze, e di certo non s'immagina che quella che
doveva essere una meta di passaggio diventerà, invece, la sua casa.
La sua terra. Di anno in anno, di partita in partita. In mezzo al
campo, baricentro e filtro, muro e fiamma. Passa il tempo e Daniele
si afferma, conquista tutti, cambiano giocatori, allenatori, fuoriclasse veri o presunti, talenti sfarzosi e maggiormente amati da giornalisti e
addetti ai lavori, ma lui rimane. Sempre. Il corpo irrobustito dagli
anni e dalle battaglie (perse o vinte, che importa se hai
combattuto?), i piedi potenti e docili, a seconda dell'occasione, che
sembrano migliorare più le stagioni scorrono via. Come un buon vino. Là
fuori il mondo del calcio si affanna a cercare in Africa e America del sud il
nuovo talento da copertina, la nuova stella da aggiungere al
firmamento dei grandi contratti e dei grandi club. Daniele, intanto,
avvolto dal calore di un'isola silenziosa ma orgogliosa e fiera,
lavora e suda, il pallone fra i piedi, lo sguardo alto e deciso. La
carriera gli riserverà più volte anche il piacere più
inconfessabile e, allo stesso tempo, intenso: fare male alla Roma, a
quella che doveva essere la sua realtà. Puntuale, contro i
giallorossi, Conti non sbaglia, mai. Mosso dal fuoco sacro e
terribilmente umano della rivalsa, della vendetta, di chi non manca
mai di ricordare a chi non ha creduto nel suo talento che ha lui, Daniele figlio di Bruno, ha saputo
rialzarsi e ha fatto del suo esilio sotto il sole sardo l'occasione
per creare un regno. Un regno ovattato, senza trionfi e pressioni, il
regno di un calcio operaio e, allo stesso tempo, amabilmente
romantico ed elegante. Nessun commissario tecnico lo chiamerà a
difendere i colori della nazionale italiana, tra le decine di giocatori (veri e
presunti) convocati e messi in condizione di indossare la maglia
Azzurra il suo nome non comparirà mai. Fuori da tutto: dai copioni
idilliaci di un destino beffardo, fuori dalla penisola, fuori da
Roma, fuori dal calcio fatto di media e denaro, fuori dal giro della
nazionale ma, inesorabilmente e innegabilmente, dentro al cuore di due popoli interi. Quello sardo e quello di chi ama il calcio. Romantico
e malinconico, rabbioso e avvincente.
Gian Maria Campedelli
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