“Albert, hai messo il cappello?”. Chiude la porta dietro di
sè l’adolescente diciassettenne della famiglia Guðmunds, senza risposta.
Sbuffa irritato, è stanco di quel trattamento da neonato
incapace di cavarsela. Scende con passo incerto le scale di casa, tentenna,
“maledetto ghiaccio!”. Il borsone sotto braccio. Lo tiene saldo, quasi
avidamente, al suo busto. All’interno la divisa rosso e azzurra del Valur,
piegata con precisione maniacale.
Un rapido sguardo al giornale abbandonato sull’erba
dall’immancabile lancio mattutino del suo amico Eiður. In prima pagina capeggia
un uomo con uno strano baffetto, autoritario. Le strade di Reykjavik sono tanto
simili quanto diverse dal solito. È il 10 maggio 1940.
Albert non è un ragazzino come gli altri. Riflette, spesso. Ha
occhi vispi, inarrestabili. Vanno a caccia in continuazione, alla ricerca di
una persona d’analizzare, di un compagno da servire, della natura da
ringraziare. Si perde in se stesso, nella sua immaginazione.
un giovane Albert nella rosa del Valur |
Tra goffi clacson pigiati all’impazzata ed appesantiti
signori che parlano di un certo Churchill, Albert si sofferma sull’unica
lacrima d’acqua non ghiacciata presente nell’intera strada. Attende, in piedi,
il delicato muoversi di quello specchio improvvisato al passaggio del carretto
del pesce. Gli ricorda quello che i suoi amici chiamano “lo stagno”. Il
Tjornin, piccolo lago situato all’interno della sua città. I pomeriggi interi
passati a leggere Laxness sulle sue sponde, ad osservare di tanto in tanto
quello spasmo melodico, quelle brevi e dolci onde create dal freddo vento. Il
piede del pescivendolo fa esplodere quel cristallizzato simbolo di
tranquillità. Albert vola assieme alle gocce terrorizzate, la mente non si
ferma. Sa che la natura islandese è ben altro. Per un attimo, immobile sul
marciapiede, osserva i geyser, si sposta sulle montagne selvagge, sugli
altipiani verdi, sulle coste alte e aguzze, sublimi e rispettose, sui tavolati
liberi, sulla pace.
14.30. Le campane non sbagliano. La cravatta si muove,
affannata. Albert corre, non è mai arrivato in ritardo ad una partita. Preciso
dentro e fuori il campo. È un atleta per meriti suoi e per grazie superiori.
Il fisico è quello di chiunque altro. I piedi pulsano talento, fatati. Parlano una lingua sconosciuta a compagni ed avversari. Il cervello elude la normalità. Duttile interno di centrocampo.
Giorno dopo giorno attraversa le nebbie della periferia per toccare quel
pallone, per divertirsi. Non sa neanche cosa sia il professionismo. Nessuno
l’ha mai saputo in Islanda.
Solito bus, il 14. Solita destinazione, Hlíðarendi, lo stadio appena costruito.
“Chi sono quei militari?”. “I britannici, sono appena
sbarcati, non lo sapevi?”. I britannici. Albert a stento immagina le metropoli,
le industrie, il football vero.
Ma si sa, il destino, per chi lo merita, è animato da
sentimenti puri.
Il giovane ragazzo con il borsone del Valur, sta per
iniziare un’avventura che ha il sapore della sua terra. Nello stesso istante,
infatti, i suoi genitori stanno parlando a casa, hanno capito che il loro
figlio è in grado di ricordarsi di mettere il cappello, e non solo.
Albert in maglia Gers |
Metà 1944. Lo sguardo è sempre lo stesso. Il poco più che ventenne Guðmundsson
osserva la pioggia, l’aula è quella del professor Docherty. Da qualche
mese sta studiando business a Glasgow. Dal giorno precedente è ufficialmente un
giocatore dei Rangers. Si era presentato al campo d’allenamento con i soliti occhi
attenti, riflessivi, fantasiosi. Voleva togliersi uno sfizio, voleva capire
quanta distanza c’era dall’Olimpo del pallone. Ed ora eccolo, mentre alza il
colletto della camicia, osserva la maglia da gioco consegnatagli poche ore
prima. Vuole sentirla, abbracciarla tutta notte. Non se la vuole togliere, vuole tenerla fino al
ritorno al dormitorio, fino a casa, a Reykjavik, se possibile, per sempre.
Laxness ad accompagnarlo sempre sul comodino, il segnalibro
fermo sulla stessa pagina, sulla stessa frase, letta e riletta. “La
determinazione e il destino sono fratelli, entrambi si trovano nel cuore stesso.”.
Quella determinazione che Albert aveva sempre mascherato ingenuamente, quel
destino che sempre lo cullerà benevolo.
La nebbia fitta, pare l’Islanda. Cinge quasi totalmente
il volto di Albert. 1945. Si sta dirigendo, in una trasfigurata Londra, verso
Tottenham. Case, vite distrutte dai bombardamenti. Un brivido lo scuote, per la
prima volta si scontra con la tragedia.
stralcio di Chelsea-Arsenal che vide protagonista il calciatore islandese |
Le gambe che tremano, la maglia rossa con grandi bottoni sul
collo bianco. Nonostante il tempo di guerra, l’ora ventiduenne vede intorno a
se un brulicante White Hart Lane. Sta debuttando con i gunners, sta scoprendo
il football, quello vero, quasi in un viaggio mentale, come quelli che faceva
da bambino. Un sogno, un pallone, una mecca che, impaurito, osserva in
tutta la sua magnificenza. Highbury è stato danneggiato pesantemente dai
nazisti, è impraticabile. Ma poco conta, non si sente esiliato in terra rivale.
Il cuore batte, più forte che mai. Il suo gioco non è mutato. Si muove
rispettoso con il 7 sulle spalle, accarezzando il terreno, consapevole di
partecipare a qualcosa di più grande di lui, della sua storia, della sua
famiglia, della sua nazione. Gioca con la vista, con la testa. Incredulo.
La stessa incredulità lo accompagna oltremanica, in una Francia ancora a pezzi, in ginocchio. Un Paese
agli albori della ricostruzione. Senza saperlo, quasi
senza volerlo, a pochi passi da place Stanislas, Albert Sigurður Guðmundsson è il primo islandese a diventare un
calciatore professionista.
Non cambia però. Scruta, come sempre. Timido visionario. Ammira le donne francesi, il loro portamento, la loro inattaccabile regalità. Le loro forme, i loro vestiti. S’innamora. Fa innamorare. "Perla bianca". Questo il soprannome che gli viene donato in terra Lorena e che lo accompagnerà per sempre. Fresco tratto di pennello, investitura immortale. Immacolato, elegante.
Non cambia però. Scruta, come sempre. Timido visionario. Ammira le donne francesi, il loro portamento, la loro inattaccabile regalità. Le loro forme, i loro vestiti. S’innamora. Fa innamorare. "Perla bianca". Questo il soprannome che gli viene donato in terra Lorena e che lo accompagnerà per sempre. Fresco tratto di pennello, investitura immortale. Immacolato, elegante.
Gioca un anno nel Nancy, ma non gli basta, non si basta. Capisce
che la storia è tale solo se completa. Attraversa le Alpi, in una galleria d’immagini
naturali tanto simili a casa. Arriva a Milano. Nel '48 è un giocatore del
Milan.
Albert con la maglia rossonera |
Strano viaggio per il
gracile Albert. Colorato da luoghi, dalla natura, dalle maglie, dalla magia. L'avvertimento di capolinea giunge quasi come un dolce ammonimento. Si rompe il ginocchio
contro la Lazio. All’epoca equivaleva al termine istantaneo della carriera. Ma questa
storia non può finire così, ognuno di noi sa che questo tragitto d’andata ha
bisogno d’un ritorno ben diverso da quello previsto in ore ed ore di treno con
la gamba gonfia, tenuta tra le mani. Non c’è spazio per lacrime d’incompiutezza.
Albert si affida al medico dell’Internazionale. Viene operato,
si rimette. È un rivale eterno a donargli la possibilità di scrivere una
poetica fine alla sua mirabolante epopea.
Gioca altri sei anni in Francia, quasi a proclamare, a
confermare a se stesso, più che agli altri, il suo status. Torna in patria da
calciatore. È l’unico che possa essere definito tale. È idolatrato, è un vero e
proprio eroe nazionale. Viene premiato di continuo, ma cerca dell’altro, non è
completo il suo viaggio.
Albert restò in parlamento dal '74 all'87 |
Febbraio 1970. “Lo stagno” davanti a lui. Il figlio, Ingi,
che rincorre la bella moglie, amata fin dal primo istante, fin da quel caffè
parigino. Che bella Celie. Che bella la vita. Immune fortunato. Debitore benedetto.
Gli occhi scorrono di pari passo le uniche movenze della donna che ama e le frasi create da Laxness. Cambia il libro, non cambia la
natura contenuta in esso. Un’esplosione privata, interiore. Il figlio di Guðmund
decide, improvvisamente, d’aiutare la sua nazione, la sua vera madre. Farà fruttare gli studi. Sarà ministro della finanza
e dell’industria.
Stacca un filo d’erba Albert, lo alza quasi toccandosi il
naso. L’osserva con l’occhio riverente e vispo che lo accompagna da sempre. Campagne della
Provenza, estate 1993. A settant’anni il figlio dell’Islanda ripercorre la sua vita in
un battito di ciglia. Intorno a sé la quiete. Pace assoluta. Un pallone
che rimbalza, i nipotini stanno giocando in lontananza. “Nonno, nonno, vieni ad
insegnarci come si diventa dei giocatori veri!”. Sbuffa Albert, si mette il
cappello, goffamente attraversa una siepe. Pensa a quel 10 maggio 1940. Ora si,
sa d’aver scritto l’ultimo capoverso della sua storia. Sa di poter accettare la
fine con il sorriso. La natura, il pallone. Un romanzo a cui nemmeno Laxness
avrebbe mai sognato di pensare. Un piccolo, grande capolavoro dagli occhi
infiniti, l'infinito valore di una perla bianca.
grazie da Islanda
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