mercoledì 19 marzo 2014

L'EPICA E I DEMONI: STORIA DI GARRINCHA (2^ PARTE)

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook clicca QUI)


Centinaia di tunnel, fumo denso e litri di cachaça. E incanto, gioia, gloria, poesia, fallimento e perdizione. L'irregolare vita del geniale Garrincha non si arresta con la spinta benevola del destino verso il professionismo, anzi. Garrincha piomba sul palcoscenico del calcio brasiliano, non più quello della polverosa periferia del Pau Grande, come un asteroide. Incontrollabile e inarrestabile, si prende la scena ghignando allegramente, sfidando tutto e tutti, solo per il gusto di divertirsi. 

Il provino al Botafogo nella memoria collettiva, lungo i decenni, si veste delle storie più bizzarre. Vengono sfumati i contorni della realtà, e i colori della leggenda si mescolano con la verità. Che poi, a pensarci bene, non c'era bisogno di inventarsi nulla. Perché effettivamente quel provino fu straordinario già di suo. 

Ha diciannove anni, si presenta al Botafogo e dopo il primo giorno (in cui gioca con la squadra giovanile) gli viene chiesto di tornare anche l'indomani. Lo vogliono mettere contro i grandi, contro la prima squadra. Quanto vale davvero questo piccolo angelo con le gambe storte?

Leggenda e realtà si seducono, ballano l'una accanto all'altra per decenni, due donne disinibite che ammaliano gli spettatori assorti: Garrincha gioca la partita da ala destra, a marcarlo c'è Nilton Santos. Nilton Santos è un giocatore vero, sarà soprannominato "Enciclopedia do Futebol", è uno che ha già vestito tante volte la maglia verdeoro del Brasile, un terzino sinistro che resterà nella Storia del calcio. Non importa, Garrincha lo salta per due volte come un birillo. La penna d'un giornalista (assieme alla signorilità di Nilton Santos che smentirà solo molti anni dopo) aggiungerà ai due dribbling anche un tunnel, irriverente e dissacrante, a suggellare lo straordinario esordio. Vezzo fantasioso. La verità, anche senza tunnel, è ancora meglio della leggenda: lo stesso terzino, infatti, pregherà allenatore e dirigenti di tesserare subito l'infernale mostriciattolo sorridente. Temeva di doverlo affrontare di nuovo come avversario e, visti i risultati della partita da poco conclusa, non sarebbe stata per niente una bella pubblicità per l'Enciclopedia. 

Da qui in avanti, parlando della sua carriera professionistica, si potrebbe iniziare una fase di cronaca piatta, incapace di rendere realmente l'idea di ciò che fu Garrincha. Dalla firma del contratto nel 1953 (verrà venduto al Botafogo per 27 dollari, e anche in questo dettaglio ci si trova di fronte tutta la magia della sua vita) impiegherà cinque anni per arrivare sul tetto del mondo vincendo la coppa Rimet assieme al giovanissimo Pelé. La storiografia del pallone ci racconta che fu la Perla Nera l'unico protagonista di quella rassegna: balle. Rivincerà il campionato mondiale anche nel 1962, stella accecante di una generazione di fenomeni, diventando capocannoniere della competizione e venendo nominato come miglior giocatore del torneo. La carriera con i verdeoro lo consacrerà al mondo intero, ma non gli basta. 

Pelé e Garrincha, il primo in maglia
Santos, l'altro in maglia Botafogo
Quando sei Garrincha, essere più in alto di tutti non è sufficiente. C'è sempre una strana forza, seducente e inesorabile, che ti trascina giù, in basso. La tendenza autodistruttiva di Mané non scompare lungo gli anni, non viene attenuata dal successo, dalla gloria e dall'amore che il popolo brasiliano dimostra per lui. Nel calderone della perdizione, durante la sua carriera, ci finiscono gli ingredienti più disparati. Non solo i problemi fisici e l'alcool, di cui Garrincha continua a far uso nonostante il professionismo. A spingerlo oltre i limiti c'è anche l'amore smodato per le donne. Un amore selvatico, quasi primitivo, un amore che non conosce misura. Come in campo, dove non c'è mai un confine oltre il quale non andare, anche nella vita Garrincha decide di lasciare che sia il proprio istinto a condurlo. A 19 anni si sposa, mette al mondo otto figli, intreccia un'altra relazione, altri due figli. Durante una tournée in Svezia, nel 1959, ingravida un'altra donna. A ventisei anni Garrincha ha già undici creature. Con la semplicità di un tunnel Mané sparge il suo seme, senza curarsi di affetti e responsabilità. Vive come se fosse ancora il ragazzino brutto e storto del Pau Grande, il ragazzino senza obblighi, oneri, pronto a sfamare ogni suo appetito.
Elza Soares e Garrincha.
Due anni dopo la stella della nazionale brasiliana conosce Elza Soares e comincia così la più celebre fra le sue relazioni amorose. La vita di Elza Soares è ancor più turbolenta di quella di Mané, e la loro unione diventa benzina sul fuoco di un'esistenza già difficile: inizia in quel periodo la fase declinante della sua carriera, dopo il Mondiale del 1962, fase in cui i problemi di alcolismo di Garrincha diventano insostenibili e si mescolano con le fosche implicazioni politiche del matrimonio con la cantante di Rio de Janeiro e con la totale dilapidazione del proprio patrimonio finanziario.
Probabilmente si può dichiarare che la vita del piccolo mostricciattolo sorridente sia, in quel momento, un disastro. Sono punti di vista. Garrincha ha ottenuto tutto dalla vita. Ha avuto e ha dato. Ha donato al Brasile e al mondo intero la sua arte, la sua naturalezza, il suo talento. Il Brasile se ne è nutrito, e ora l'ha abbandonato nelle mani dei suoi demoni. La sua carriera, dopo la fine della sua storia d'amore con il Botafogo, diventa impalpabile, effimera, quasi inesistente, fino ad estinguersi. Il calcio cessa di essere la cura per la sua vita malata. 


E' persino costretto a trasferirsi in Italia per cercare di guarire da una cronica depressione causata da un incidente stradale in cui morirà, davanti ai suoi occhi, la madre di Elza Soares. Scappa oltreoceano ma non riesce a seminare i propri tormenti: furono quelli probabilmente gli unici difensori arcigni in grado di stargli dietro. Per tutta la vita. Riesce a tornare in Brasile, ma i problemi non finiscono. V'è un turbinio finale di caotici fallimenti, trovando comunque ancora la forza, dopo la fine della relazione con la Soares, di avere una storia con una donna trentunenne. Cacciatore inguaribile e affamato: sarà lei l'ultima donna della sua vita. 

Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta Garrincha è uno spettro incapace di intendere e volere. Viene trascinato dai venti mesti della morte lungo viali senza ritorno, abbandonato, emarginato, senza più niente che lo riesca a frenare. Si accanirà sull'alcool e l'alcool si accanirà su di lui, cento volte più forte, finendolo senza pietà all'inizio del 1983. Nessuna gloria, nessuna acclamazione.
Garrincha muore e muore con lui il sentimento di un calcio così semplice e bello da non poter esistere più. Nessuno restituirà al popolo brasiliano la gioia che Mané fu capace di infondere con il pallone fra i piedi: figlio dell'anarchia, del piacere ludico dell'improvvisazione, il cabarettista del calcio, imprevedibile e geniale, incarna ancora oggi l'essenza del futebol moleque.  Così diverso da Pelè, così lontano da ogni razionalità, così grande e così piccolo. Ma l'uomo storto e difettoso vinse veramente sull'artista sublimemente inarrivabile?

Se, come dice Galeano, "un gol di Garrincha è un momento eterno", allora no, l'uomo storto e difettoso non ha vinto. Al contrario, ne ha completato la grandezza, l' unicità, ne ha perfezionato la leggenda. E' l'umana e profonda debolezza a rendere eterno il momento di cui Mané è custode. Ha dribblato la normalità, umiliato le convenzioni, ci si è fatto sopra una sega, è arrivato sulla vetta più alta ed è caduto come un angelo ribelle, piangendo di gioia. Alla faccia del professionismo, alla faccia di Pelè.


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