sabato 21 novembre 2015

I NOVE DI CASESTELLATE.

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook clicca QUI)


Le domeniche le passavamo a ciondolare per il paese, alla ricerca del decimo. 
Come uno sciame di piccoli uomini cocciuti, zingarelli ossuti lungo le viottole scoscese di quel villaggio arroccato sulla pietra e sul muschio: chi ci aveva preso in simpatia ci salutava donandoci girelle di liquirizia, la gente di Via Monte Rosa, invece, ci considerava alla stregua di ladruncoli perdigiorno. 

E avevano ragione.
Quel che eravamo stava scritto sulle nostre facce sporche e magre: piccoli occhi neri, un pallone di cuoio grattato e strappato, in nove a correre gridando "chi gioca?" e qualche sosta di piacere nelle botteghe aperte nonostante il giorno del Signore. Da Mattiuzzi, in fondo a Via Cavour, c'erano dolci fatti dalla moglie il cui profumo si sentiva fin su in piazza, davanti alla chiesa, dove solitamente ci mettevamo a giocare finita la caccia al decimo. Dal signor Rosengraz, un ebreo austriaco su Via della Liberazione, entravamo per rubare i giornali patinati con le donne della tivvù in copertina e qualche pacchetto di Nazionali. Io, che ero il più grande, avevo undici anni, ma fumavo già da due. Il più precoce era Minelli, che a otto anni già si fumava dieci sigarette al giorno. Ed infatti la madre l'aveva scoperto, povera donna, e l'aveva castigato per due mesi. Lui, però, persino più gracile degli altri, sgattaiolava fuori dalla finestra dello stanzino della nonna  e pagava la sorella perché le tenesse su il gioco. Minelli, si sa, sarebbe diventato un bandito e Casestellate avrebbe avuto paura e rispetto di quello scheletrino tutto nervo e fumo. 

Bambini giocano a calcio. South Kensington. 

Dicevamo, andavamo a caccia del decimo, ma quasi mai qualcuno accettava. Le buone famiglie del villaggio non acconsentivano a lasciare i loro pargoli nelle nostre mani. Facevano bene, l'ammetto. Non è che fossimo cattivi ragazzi, solo che non avevamo altro che la strada. Di conseguenza, non c'importava nulla di libri di scuola, benedizioni ecclesiali e vestiti ordinati. Le nostre famiglie avevano perso la speranza, e il giovedì sera alcune delle nostre madri si ritrovavano in Chiesa per pregare per noi. Il parroco, Don Lasagna, aveva smesso d'opporre resistenza sugli scalini del sagrato: si limitava a sedersi e a guardarci giocare. Nove o dieci che fossimo. Non che ci fossero molti talenti tra di noi, ma io e Gierri Liuis, mio cugino, non eravamo male. Una volta, ne sono certo, Don Lasagna ha esultato ad un mio gol: stop di petto e tiro al volo, fra l'albero e il portiere: lui si è nascosto subito per non mostrarsi ma questi occhi beccano un falco di là del vallo se lo vogliono. 

Anni dopo, molti anni dopo, quando tutti crescemmo e molti di noi abbandonarono Casestellate (eccetto Minelli, che diventò sindaco e si sposò con Nina, la più bella bambina della scuola elementare Camillo Benso) ci ritrovammo in pianura, giù nella valle, dove nubi grige e stridore di ferraglia disturbavano i nostri sogni. Ci stupimmo di non vedere ragazzini per le strade in cerca del decimo. Tutto ciò che vedevamo erano auto e borse della spesa. Gli ebrei non gestivano più empori ma grossi edifici in cui la gente depositava i propri soldi. Se fossimo nati in quel posto probabilmente non avremmo mai potuto rubare tutte quelle belle riviste, nessuno di noi sarebbe diventato tabagista e non avremmo mai saputo che gusto ha giocare a milleduecento metri in mezzo a un temporale, sotto la statua di San Giacomo, fra le vecchie case del borgo, tra i lamenti delle signore dalle chiome fintamente moderne. Crescemmo i nostri figli mandandoli all'asilo, alle elementari e alle medie. Che lusso. Il mio s'appassionò all'atletica, ma correva in strutture chiuse dov'era vietato fumare. Un giorno gli chiesi "hai mai provato a correre in montagna? Ti porto su, un pomeriggio, a Casestellate, e ti faccio vedere i nostri percorsi ad ostacoli lungo le stradine, quelli di quando eravamo bambini". Mi disse che in montagna rischiava d'infortunarsi, che preferiva allenarsi in città. 

Ragazzini giocano a Kabul, 2010. 
Ogni tanto c'incontravamo ancora, noi zingarelli di montagna cresciuti in esilio nella valle. Ci piaceva ricordare. Non che fossimo infelici, ma sicuramente un tempo eravamo più contenti di alzarci il mattino. Gierri Liuis (che scoprii a vent'anni si scrivesse "Jerry Lewis") possedeva un bar in Piazza Colonia, ci ritrovavamo lì. Mi diceva, ogni tanto, che da quando aveva aperto il bar (Il Bar Croce del Sud) non aveva mai visto nessun ragazzino con un pallone in mano e che, in realtà, quando la sera tornava a casa con la sua bicicletta non c'era un parco, non uno, in cui qualcuno calciasse una palla. Gli sembrava impossibile. Io sorridevo, gli mettevo una mano sulla spalla e lui annuiva, in silenzio. Poi si alzava, andava al bancone e sussurrava piano piano "Non siamo più a Casestellate". La moglie lo tradiva, non aveva potuto avere figli. Diventammo adulti senza aver mai trovato il nostro decimo uomo.

Minelli morì per un tumore ai polmoni, su nel borgo. Ci ritrovammo tutti per il suo funerale: noi in otto, in nove col nostro amico nella cassa di legno scuro. Uscimmo dalla chiesa sfiniti dal dolore e ci accorgemmo subito di una cosa: là dove c'era il nostro campo, in mezzo alla piazza, una rigogliosa aiuola recintata. 

Minelli, ci raccontò la Nina, quando diventò sindaco fece di tutto per farla togliere. "I ragazzini ci devono giocare a pallone lì!". Nessuno gli dava bado, sapevano già della malattia. 
Poi un giorno, un signore grassoccio dal viso sempre unto, lo guardò e lo fulminò. "Sindaco-disse-qui non ci sono più ragazzini". 

L'aiuola era così verde da sembrare finta. Noi piangemmo e bevemmo molto. 
Brindammo a Minelli, ad un pallone, ai seni tondi della Nina e alla gente di Via Monte Rosa, tutta finita dentro una fossa, al Rosengraz e alle Nazionali che ci avevano portato via il nostro amico. 
Io non tornai più al borgo. Vidi un bambino con un pallone, al parco dietro casa, qualche giorno dopo. Gli andai incontro, m'accorsi avvicinandomi che era soltanto un palloncino rosso. Mi sentii bruciare il petto. La mia vista stava perdendo colpi, io che vedevo i falchi di là del vallo. 

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