mercoledì 6 aprile 2016

FAVOLA D'UN SENZATETTO. IL FUTEBOL E BEBÉ.

di Gianmarco Pacione (per seguirci su Fb clicca qui)

Bebé in maglia Rayo

Si muovono frenetici trecento piedi, battono forte il suolo come timpani d’orchestra, scandiscono il tempo d’un futebol bambinesco, spensierato, isolato.  

Vamos Bebè!” strilla la pelota: nell’informe e divertita massa di corpi si fa lustrare dal destro d’un giovane prescelto dai capelli pazzi. Estate 2009, la Casa do Gaiato di Lisbona sta respirando calcio durante la classica ora di svago pomeridiano: ospita centocinquanta bambini stipati in una cancha polverosa, un campo senza linee laterali ed incorniciato da porte arrugginite. Gli sbarbati giocatori hanno un’unica, imponente particolarità ad accomunarli: sono tutti orfani. Tutti meno uno

Tiago Manuel Dias Correia, per tutti Bebè, vive tra le mura di questo centro da 10 anni e, diciannovenne, ha appena firmato il suo primo contratto da professionista. 

Bebé nella Casa do Gaiato

Non ce la faccio, non riesco ad accontentare tutti…” diceva l’avó, la nonna Ilda, appena prima di mandarlo in quella grande famiglia priva di padri e madri. “Tranquilla nonna, andrà tutto bene, so quanto tieni a me, a mia sorella, ai miei tre fratelli: da sola non puoi mantenerci tutti, vedrai che qui dentro mi divertirò”, le rispondeva un incerto nipote di 9 anni: era stato abbandonato dalla madre dopo il divorzio, era stato schivato dal padre in un sadico nascondino senza fine, senza soluzione; ora doveva salutare anche nonna Ilda, suo unico punto di riferimento.

La rappresentativa portoghese in Bosnia, svetta su tutti Bebé
Il percorso di Bebè nel campo minato della vita aveva assunto rapidamente i contorni d’un brutto sogno, un incubo allontanato a suon di calci e sorrisi nel cortile della Casa do Gaiato: “Entrai lì a 9 anni, all’epoca non m’interessava il calcio; a 14 anni i miei amici, i miei nuovi fratelli, mi forzarono a giocare e solo allora cominciarono i giorni interi di partite insieme a loro”. Anni trascorsi a lavare piatti, ad apprendere la rudezza della vita ed il profumo dei piccoli valori quotidiani; anni di futebol da calle, da strada, distante anni luce dalle dottrine tattiche delle accademies e dai banali esercizi delle scuole calcio: un futebol a rime portoghesi, composto e diretto da piedi veloci, da corpi ossuti e spigolosi come scogli.

Niente partite, niente osservatori: Bebè diventa maggiorenne, nel 2008, senza aver messo la testa e soprattutto i piedi fuori dalla Casa do Gaiato. Un tesoro nascosto, una bomba ad orologeria che detona nel più originale ed inaspettato dei modi. “Un giorno mi chiamò padre Arsenio, mi chiese se volessi giocare gli Europei dei senzatetto organizzati in Bosnia. Risposi che mi sarebbe piaciuto, arrivai là e segnai 40 gol in 6 partite. Per la prima volta qualcuno mi vide giocare e subito mi segnalarono all’Estrela de Amadora (terza serie portoghese)”. 

Dai clochard al professionismo, con 15mila euro di stipendio annuale. Bebè però continua a vivere in orfanotrofio, inizialmente rifiuta il passaggio al Vitoria Guimaraes per non abbandonare quei 149 fratelli, figli in realtà d’un genitore unico: il calcio polveroso. “Non volevo andarmene, era la mia famiglia. Mi sentivo protetto e non sapevo cos’avrei trovato lontano da loro”. 
Con Sir Alex

Ma Bebè saluta presto la Casa do Gaiato. Dopo appena tre mesi con il Vitoria Guimaraes la sua fiaba impenna in maniera incontrollabile: “Mi dissero che il Manchester United voleva comprarmi. Pensai ad uno scherzo, poi vidi Jorge Mendes insieme a tre uomini della società: era tutto vero”. 

Tutto, forse, troppo vero. Bebè attraversa la Manica per 7,4 milioni di sterline e si smarrisce: pare un viandante giunto al Teatro dei Sogni quasi per caso. Ferguson confessa d’averlo acquistato a scatola chiusa, senza aver osservato video o partite, caso unico in tutta la nobile carriera. 

A Manchester la cancha di Bebè diventa panchina prima, tribuna poi. “Penso di essere molto simile a Cristiano Ronaldo” tuona, in conferenza stampa, tra tsunami di sopracciglia alzate degli addetti ai lavori. In quattro anni non parte mai titolare in Premier: “L’abbiamo preso per fare beneficenza” ruggiscono, ironici, i rossi mancunians durante i pochissimi spezzoni di partita giocati dall’esterno offensivo. 

(Qui il "Bebé crossing show" contro i Wolves)

Da finto senzatetto Bebè diventa il tipico esemplare di calciatore-homeless, costretto a girare vorticosamente in un incontrollabile calderone di prestiti e passaggi di proprietà. Beşiktaş (malissimo), Rio Ave (malino), Paços de Ferreira (bene con 12 reti in 27 gare), Benfica (firmando un contratto fino al 2018) e Cordoba: il giovane dai capelli pazzi apparentemente non ha più famiglia, non ha più casa.  

A rapporto da Paco Jemez
Apparentemente. Almeno fino all’estate 2015, quando a farsi avanti è la tribù di Vallecas, orchestrata dal mistico profeta Paco Jemez. Già, un carismatico ed affettuoso pater familias per un orfano del football. Bebè trova casa tra i Bukaneros, nel barrio più caldo e fagocitante di Madrid: s’innamora in un attimo, ambienta il suo metro e 90 di estro cominciando a sfrecciare sulle fasce di tutta Spagna, incidendo per applicazione e qualità. Trova continuità e tranquillità, giocando 28 gare nella stagione attuale, servendo 6 assistenze e siglando tre reti (strepitosa quella all’Espanyol). 

Salire per poi scendere. Scendere per poi salire. Chissà come finirà quest’allucinata favola portoghese, opera d’un fato schizofrenico. A dircelo saranno i fratelli di Vallecas cantando il nome d’un ala sorridente, saranno i fratelli della Casa do Gaiato raccontando la leggenda del ragazzo dai capelli pazzi; a dircelo sarà Bebè: figlio legittimo di futebol e talento.



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