giovedì 24 gennaio 2013

EUROPA E SUDAMERICA: SEPARATE DALLA STRADA


L'imprevedibilità, l'improvvisazione, la creativa anarchia. Oppure i muscoli, l'organizzazione, la metodicità. Calcio sudamericano e calcio europeo, una dicotomia in continuo contrasto, in continua relazione. Riflettere sulle differenze fra i due modi di interpretare il gioco del pallone vuol dire andare oltre i superficiali luoghi comuni, vuol dire andare oltre la globalizzazione omologatrice che ha inevitabilmente tentato di mescolare i due mondi a favore dei club più ricchi. Comprendere il perché le due scuole siano così agli antipodi non può prescindere dall'analisi attenta dell'educazione, della cultura, della storia dei paesi o delle regioni prese in considerazione. Secondo puristi, benpensanti e scettici il calcio è soltanto un gioco.


Sappiamo quanto ciò sia falso. Il calcio è un intreccio di fattori razionali ed irrazionali, di storia, politica, economia. E' quanto di più complesso si possa pensare, poiché tutti questi mondi sono tenuti in tensione da una sfera che rotola e che, inesorabilmente, può cambiare le sorti di una stagione, di un anno, di una vita. Il calcio non è mai solo calcio ed è proprio da qui che nasce la differenza fra il mondo sudamericano e quello europeo. Nascere povero e crescere per strada è evidentemente diverso dal nascere in un paese occidentale, dove il capitalismo è un sano fattore di crescita e ha intaccato anche lo sport e dove la vera virtù è il successo, l'arrivare alla meta. Essere un apprendista campione in Argentina è, fortunatamente, totalmente l'opposto che esserlo in Germania. C'è chi ha deciso di privilegiare il talento, la cristallina purezza della fantasia, l'invenzione, il capriccio, l'impulsiva serpentina. E chi, invece, ha preferito investire sulle strutture, sull'atletismo, sulla forza. Le categorie sono rigide, e nella realtà non esistono in maniera così statica, ma servono a rendere chiaro su cosa si fondi la strutturale differenza fra i due poli opposti. La Germania stessa, la Spagna, il Portogallo, l'Italia sono nazioni che, ora o in passato, hanno saputo improntare le proprie politiche in un'ottica meno europea e più latina. Ma sono state epoche fortunate, nidiate di fenomeni, progetti ad hoc. Si è trattato di destino o, in molti casi, di semplice pianificazione. Di ibridazione: combinare i migliori punti di forza di una scuola con i più produttivi dell'altra. Il calcio diventa un'azienda, qui. Dall'altra parte, invece, nonostante vi sia chi ha tentato e tenta di europeizzare il futbol (o futebol, in base alle latitudini geografiche) il calcio è ancora uno spirito libero. Il calcio è espressione, una via, un sogno. Non è parte di un settore economico, non è un campo d'addestramento, non è marketing. I grandi sponsor, certo, hanno invaso La Paz, Buenos Aires, Rio, Medellin ma... non basta. Perché la differenza sostanziale parte dalla strada. Dalla strada in cui si gioca con un pallone che ha poco a che vedere con quello con cui gioca il Botafogo la domenica, dalla strada in cui ci si incammina per andare a seguire la propria squadra. La strada come luogo di aggregazione, crescita, evasione. Non il centro sportivo attrezzato, non la palestra. La strada: la terra, il cemento, i sassi. Un'eterna infanzia, di generazione in generazione. Crescere cercando di dribblarne il più possibile, crescere cercando di incantare, non crescere per fare più chilometri degli altri. Il calcio come una splendida pittura astratta, non come solido cemento armato. Diventare grandi sui campi spelacchiati lasciandosi guidare da folli deliri di tecnica più che dall'ossessione del risultato, inteso sia come vittoria o sconfitta, sia come progetto di crescita individuale. E ancora vivere lo stadio come il centro del mondo, viverlo senza fermarsi, viverlo senza paura: in Europa gli stadi sono diventati teatri o, peggio ancora, giganti abbandonati.  In Sudamerica no: lo stadio è la logica prosecuzione della strada. Dal luogo in cui si è sognato invano di diventare il nuovo Maradona al luogo in cui si finisce per sostenere Chavez o Paredes. E pazienza se a Diego non somigliano nemmeno un po'. Si canta, dopo aver ballato “pelota al pie” per anni e anni. Si vive il pallone senza tirarsi indietro mai, senza le gabbie europee che hanno aumentato lo spessore delle proprie sbarre con il passare degli anni. Come biasimare chi, venendo in Europa carico di belle speranze, se ne torna mestamente in Patria dopo pochi mesi? Non te l'avevano spiegato, amico, che qui a pallone non si gioca più col sorriso . E' così da un pezzo, ormai. O ti abitui che ogni tuo passaggio sbagliato rischia di voler dire di più di un semplice passaggio sbagliato oppure te ne stai fuori a guardare i professionisti giocare. Gli europei, gli africani, gli asiatici e certi latinoamericani. Atipici, presunti o addirittura pentiti. Ammirare la scuola sudamericana è frustrante, sia quando sei un ragazzino e giochi, sia quando cresci e osservi. Rimane un'amara considerazione: forse la mia è stata l'ultima generazione potenzialmente e naturalmente non-europea. I parchi, i giardini, i parcheggi: ci abbiamo sudato tanto, poi si sono svuotati. Ora anche gli stadi. Pian piano, in silenzio. Il nostro Sudamerica è scomparso.

Gian Maria Campedelli

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