sabato 2 marzo 2013

IL VIAGGIO ISLANDESE DEGLI OCCHI DI ALBERT



“Albert, hai messo il cappello?”. Chiude la porta dietro di sè l’adolescente diciassettenne della famiglia Guðmunds, senza risposta.

Sbuffa irritato, è stanco di quel trattamento da neonato incapace di cavarsela. Scende con passo incerto le scale di casa, tentenna, “maledetto ghiaccio!”. Il borsone sotto braccio. Lo tiene saldo, quasi avidamente, al suo busto. All’interno la divisa rosso e azzurra del Valur, piegata con precisione maniacale.
Un rapido sguardo al giornale abbandonato sull’erba dall’immancabile lancio mattutino del suo amico Eiður. In prima pagina capeggia un uomo con uno strano baffetto, autoritario. Le strade di Reykjavik sono tanto simili quanto diverse dal solito. È il 10 maggio 1940.


Albert non è un ragazzino come gli altri. Riflette, spesso. Ha occhi vispi, inarrestabili. Vanno a caccia in continuazione, alla ricerca di una persona d’analizzare, di un compagno da servire, della natura da ringraziare. Si perde in se stesso, nella sua immaginazione.

un giovane Albert nella rosa del Valur
Tra goffi clacson pigiati all’impazzata ed appesantiti signori che parlano di un certo Churchill, Albert si sofferma sull’unica lacrima d’acqua non ghiacciata presente nell’intera strada. Attende, in piedi, il delicato muoversi di quello specchio improvvisato al passaggio del carretto del pesce. Gli ricorda quello che i suoi amici chiamano “lo stagno”. Il Tjornin, piccolo lago situato all’interno della sua città. I pomeriggi interi passati a leggere Laxness sulle sue sponde, ad osservare di tanto in tanto quello spasmo melodico, quelle brevi e dolci onde create dal freddo vento. Il piede del pescivendolo fa esplodere quel cristallizzato simbolo di tranquillità. Albert vola assieme alle gocce terrorizzate, la mente non si ferma. Sa che la natura islandese è ben altro. Per un attimo, immobile sul marciapiede, osserva i geyser, si sposta sulle montagne selvagge, sugli altipiani verdi, sulle coste alte e aguzze, sublimi e rispettose, sui tavolati liberi, sulla pace.

14.30. Le campane non sbagliano. La cravatta si muove, affannata. Albert corre, non è mai arrivato in ritardo ad una partita. Preciso dentro e fuori il campo. È un atleta per meriti suoi e per grazie superiori. Il fisico è quello di chiunque altro. I piedi pulsano talento, fatati. Parlano una lingua sconosciuta a compagni ed avversari. Il cervello elude la normalità. Duttile interno di centrocampo. Giorno dopo giorno attraversa le nebbie della periferia per toccare quel pallone, per divertirsi. Non sa neanche cosa sia il professionismo. Nessuno l’ha mai saputo in Islanda.

Solito bus, il 14. Solita destinazione,  Hlíðarendi, lo stadio appena costruito.

“Chi sono quei militari?”. “I britannici, sono appena sbarcati, non lo sapevi?”. I britannici. Albert a stento immagina le metropoli, le industrie, il football vero.

Ma si sa, il destino, per chi lo merita, è animato da sentimenti puri.

Il giovane ragazzo con il borsone del Valur, sta per iniziare un’avventura che ha il sapore della sua terra. Nello stesso istante, infatti, i suoi genitori stanno parlando a casa, hanno capito che il loro figlio è in grado di ricordarsi di mettere il cappello, e non solo.

Albert in maglia Gers
Metà 1944. Lo sguardo è sempre lo stesso. Il poco più che ventenne Guðmundsson  osserva la pioggia, l’aula è quella del professor Docherty. Da qualche mese sta studiando business a Glasgow. Dal giorno precedente è ufficialmente un giocatore dei Rangers. Si era presentato al campo d’allenamento con i soliti occhi attenti, riflessivi, fantasiosi. Voleva togliersi uno sfizio, voleva capire quanta distanza c’era dall’Olimpo del pallone. Ed ora eccolo, mentre alza il colletto della camicia, osserva la maglia da gioco consegnatagli poche ore prima. Vuole sentirla, abbracciarla tutta notte. Non se la vuole togliere, vuole tenerla fino al ritorno al dormitorio, fino a casa, a Reykjavik,  se possibile, per sempre. 

Laxness ad accompagnarlo sempre sul comodino, il segnalibro fermo sulla stessa pagina, sulla stessa frase, letta e riletta. “La determinazione e il destino sono fratelli, entrambi si trovano nel cuore stesso.”. Quella determinazione che Albert aveva sempre mascherato ingenuamente, quel destino che sempre lo cullerà benevolo.

La nebbia fitta, pare l’Islanda. Cinge quasi totalmente il volto di Albert. 1945. Si sta dirigendo, in una trasfigurata Londra, verso Tottenham. Case, vite distrutte dai bombardamenti. Un brivido lo scuote, per la prima volta si scontra con la tragedia.

stralcio di Chelsea-Arsenal che vide protagonista il calciatore islandese
Le gambe che tremano, la maglia rossa con grandi bottoni sul collo bianco. Nonostante il tempo di guerra, l’ora ventiduenne vede intorno a se un brulicante White Hart Lane. Sta debuttando con i gunners, sta scoprendo il football, quello vero, quasi in un viaggio mentale, come quelli che faceva da bambino. Un sogno, un pallone, una mecca che, impaurito, osserva in tutta la sua magnificenza. Highbury è stato danneggiato pesantemente dai nazisti, è impraticabile. Ma poco conta, non si sente esiliato in terra rivale. Il cuore batte, più forte che mai. Il suo gioco non è mutato. Si muove rispettoso con il 7 sulle spalle, accarezzando il terreno, consapevole di partecipare a qualcosa di più grande di lui, della sua storia, della sua famiglia, della sua nazione. Gioca con la vista, con la testa. Incredulo.

La stessa incredulità lo accompagna oltremanica, in una Francia ancora a pezzi, in ginocchio. Un Paese agli albori della ricostruzione. Senza saperlo, quasi senza volerlo, a pochi passi da place Stanislas, Albert Sigurður Guðmundsson è il primo islandese a diventare un calciatore professionista.

Non cambia però. Scruta, come sempre. Timido visionario. Ammira le donne francesi, il loro portamento, la loro inattaccabile regalità. Le loro forme, i loro vestiti. S’innamora. Fa innamorare. "Perla bianca". Questo il soprannome che gli viene donato in terra Lorena e che lo accompagnerà per sempre. Fresco tratto di pennello, investitura immortale. Immacolato, elegante.

Gioca un anno nel Nancy, ma non gli basta, non si basta. Capisce che la storia è tale solo se completa. Attraversa le Alpi, in una galleria d’immagini naturali tanto simili a casa. Arriva a Milano. Nel '48 è un giocatore del Milan.

Albert con la maglia rossonera
Strano viaggio per il gracile Albert. Colorato da luoghi, dalla natura, dalle maglie, dalla magia. L'avvertimento di capolinea giunge quasi come un dolce ammonimento. Si rompe il ginocchio contro la Lazio. All’epoca equivaleva al termine istantaneo della carriera. Ma questa storia non può finire così, ognuno di noi sa che questo tragitto d’andata ha bisogno d’un ritorno ben diverso da quello previsto in ore ed ore di treno con la gamba gonfia, tenuta tra le mani. Non c’è spazio per lacrime d’incompiutezza.

Albert si affida al medico dell’Internazionale. Viene operato, si rimette. È un rivale eterno a donargli la possibilità di scrivere una poetica fine alla sua mirabolante epopea.

Gioca altri sei anni in Francia, quasi a proclamare, a confermare a se stesso, più che agli altri, il suo status. Torna in patria da calciatore. È l’unico che possa essere definito tale. È idolatrato, è un vero e proprio eroe nazionale. Viene premiato di continuo, ma cerca dell’altro, non è completo il suo viaggio.

Albert restò in parlamento dal '74 all'87
Febbraio 1970. “Lo stagno” davanti a lui. Il figlio, Ingi, che rincorre la bella moglie, amata fin dal primo istante, fin da quel caffè parigino. Che bella Celie. Che bella la vita. Immune fortunato. Debitore benedetto. Gli occhi scorrono di pari passo le uniche movenze della donna che ama e le frasi create da Laxness. Cambia il libro, non cambia la natura contenuta in esso. Un’esplosione privata, interiore. Il figlio di Guðmund decide, improvvisamente, d’aiutare la sua nazione, la sua vera madre. Farà fruttare gli studi. Sarà ministro della finanza e dell’industria.

Stacca un filo d’erba Albert, lo alza quasi toccandosi il naso. L’osserva con l’occhio riverente e vispo che lo accompagna da sempre. Campagne della Provenza, estate 1993. A settant’anni il figlio dell’Islanda ripercorre la sua vita in un battito di ciglia. Intorno a sé la quiete. Pace assoluta. Un pallone che rimbalza, i nipotini stanno giocando in lontananza. “Nonno, nonno, vieni ad insegnarci come si diventa dei giocatori veri!”. Sbuffa Albert, si mette il cappello, goffamente attraversa una siepe. Pensa a quel 10 maggio 1940. Ora si, sa d’aver scritto l’ultimo capoverso della sua storia. Sa di poter accettare la fine con il sorriso. La natura, il pallone. Un romanzo a cui nemmeno Laxness avrebbe mai sognato di pensare. Un piccolo, grande capolavoro dagli occhi infiniti, l'infinito valore di una perla bianca.



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