domenica 17 febbraio 2013

IL GREGARIO CON LE ALI: STORIA DI ANTONINO ASTA


Non finirò mai di ripeterlo: il calcio è magia perché è tutto fuorché una palla che rotola. E', nelle sue infinite declinazioni e sfaccettature, come un enorme libro pieno di storie, storielle e storiacce di ogni genere: dal romanzo di formazione al fantastico, dal giallo all'umoristico. Una di queste storie prende in vita in Italia, a cavallo fra la seconda metà degli anni novanta e l'inizio del nuovo millennio. L'insospettabile protagonista è un siciliano di Alcamo trapiantato a Milano, un ometto alto un metro e settantadue con una grande passione per il calcio. Le sue giornate le divide tra un allenamento e il bancone del bar dove lavora. Il suo nome è Antonino Asta, e questa è la sua storia.



Antonino Asta in maglia granata, stagione 2001-2002
(foto Corriere dello Sport)
Antonino detto Tonino da giovane non è un fenomeno. Non ha nel curriculum, come molti suoi futuri colleghi, esperienze in settori giovanili di grandi club. E' uno fra i tanti, non un brocco, certo, ma nemmeno un fuoriclasse. Riesce comunque a farsi largo tra decine di cross, dribbling e chilometri macinati su campetti fangosi o polverosi immersi nella nebbiosa provincia lombarda. Una scalata che lo porta dalla prima categoria fino alla promozione, dalla promozione alle prime esperienze da professionista. Tutto in quattro anni. Quattro anni possono essere tanti o pochi, dipende dal punto di vista dal quale si guardano i fatti. Sono pochi se si pensa che in quattro anni Antonino è passato da un campionato provinciale al professionismo, sono tanti, invece, se si pensa che Antonino quei traguardi se li è guadagnati con una ruvida fatica operaia. Sgomitando con spigolosi terzini che durante la settimana erano meccanici o studenti di legge all'università, cercando il cross decisivo da appoggiare sulla testa di qualche lungagnone pigro con la pancia da birra e salsicce, andando agli allenamenti, puntuale ogni volta, su campi gelidi poco illuminati, 'che una volta finito tutto torni negli spogliatoi con la vista annebbiata e il mal di testa. Niente vetrine giovanili prestigiose, niente erba all'inglese, niente Torneo di Viareggio, niente sponsor o titoli sulla Gazzetta. Niente: lavorare sodo, in campo e fuori, al bar di famiglia, a testa bassa inseguendo i sogni sul filo del rasoio, spinto dal talento gregario e affamato di chi è cresciuto sapendo di dover sputare più sangue degli altri per emergere. Fin qui quella di Tonino è la storia di quasi tutti noi. Respirare i campi di provincia, giocare, sperare in una giornata fortunata, nel colpo giusto. Andare il martedì e il giovedì con vento e acqua ad allenarsi, rinunciare alle domeniche al mare o in montagna, cercare di tener buona la fidanzata. Solo che Asta, a differenza nostra, qualche asso nella manica da giocarsi ce l'aveva. Un po' per volontà e un po' per destino. Il trampolino di lancio, per lui, è Saronno. Ci rimane tre anni, dal ripescaggio in C2 alla promozione in C1. Si afferma fra i professionisti, non è ancora la serie A, ma Antonino ci sta lavorando. Il Monza si interessa a lui e si assicura le sue prestazioni: si accendono i reattori, il piccolo siluro di Alcamo è pronto a decollare. A Monza rimane due stagioni. E' sempre titolare, gioca sessanta partite in campionato, segna sette gol e con i brianzoli vince il campionato di C1 nel 1996-1997. A quel punto qualcuno di importante comincia ad accorgersi di lui: Luigi Radice lo segnala al Torino e proprio la società granata lo preleva dal Monza. Asta comincia ad assaporare altri palcoscenici; la piazza granata è calda, popolosa, la società ha fatto la storia del calcio italiano e tenta di riportarsi nella massima serie. Quando arriva, ad allenare il Toro c'è lo scozzese Souness: la stagione parte male e Antonino non vede il campo. Poi il destino in veste finalmente benevola cambierà il copione di quell'annata e, forse, di tutto ciò che verrà in seguito: arriva Edy Reja, i granata cominciano a vincere e Asta diventa titolare. Giocherà 28 partite segnando tre gol. Dalla prima categoria alla serie B. Ma non è finita: sono passati dieci anni dalle prime esperienze “fra i grandi” del Corbetta e come una pepita che pian piano viene sgrezzata e lavorata, Antonino comincia a brillare sul serio. La stagione successiva arriva Mondonico e il Toro torna fra i grandi. E' serie A, e Asta la conquista da protagonista, giocando trentatre partite. Sembra un'ascesa senza fine, la favola perfetta. Alla prima stagione in Serie A, però, Tonino non trova molto spazio. Durante il mercato invernale la trentenne ala sgusciante viene ceduta al Napoli, in serie B. Non demorde, da lottatore dignitoso, e trascina i partenopei alla promozione. Sembra una consacrazione, invece non è ancora giunto il momento del grande salto. Il Torino se lo aggiudica alle buste (per una cifra piuttosto irrisoria: 105 milioni di lire) e, con i granata, deve di nuovo riconquistare la serie A partendo dal campionato cadetto. La squadra è un misto di giovani talentuosi e giocatori esperti, ma all'inizio le cose non vanno. Il Toro si ritrova ultimo e a Gigi Simoni subentra Camolese, allenatore della primavera. Come con Souness e Reja, il destino sembra soffiare a favore di Tonino. Camolese lo promuove capitano e la squadra passa dall'ultimo posto al primo. E' di nuovo Serie A: Asta, l'uomo delle promozioni, non tradisce. Ogni vittoria, ogni traguardo, ogni successo condito con l'acido lattico, la saliva, il sangue, l'inarrestabile corsa. Il gregario atipico, un motorino che macina la fascia senza fermarsi mai. Non c'è tempo per prendere fiato, bisogna faticare.
Asta in un derby con la Juventus, stagione 2001-2002, quella
della sua consacrazione. (Foto: www.toroclub.it)

Sta per iniziare la stagione della sua vera consacrazione: il pubblico della Serie A si accorge del numero 13 di domenica in domenica. Emerge fra i nomi altisonanti e i contratti miliardari, più forte delle perplessità di chi lo reputa un azzardo troppo rischioso per un campionato di livello mondiale come quello italiano. Antonino sta bene in serie B, dove la corsa vince sulla qualità, dove viene premiato chi soffre di più, dicono. Lui non parla, lavora, gioca alla grande. Diventa un idolo per migliaia di appassionati, per quelli che sanno cosa significa vivere per il pallone, nel bene e nel male. Poi, d'improvviso, accade l'incredibile. Lippi, in vista dei mondiali 2002, organizza un'amichevole a Catania con gli Stati Uniti. Quando esce la lista dei convocati, tra i centrocampisti, c'è anche il nome di Tonino. E' febbraio, il campionato è oltre la metà. Il girone d'andata è stato al di sopra di ogni aspettativa, e mercoledì 13, a trentuno anni, Asta esordisce in nazionale. Ha il numero 7, parte titolare. Gioca quarantacinque minuti. Quarantacinque minuti che valgono una vita. Valgono ogni singolo sacrificio, ogni rinuncia, ogni boccone amaro mandato giù in silenzio, digerito in palestra, sul campo, con le scarpe da calcio ai piedi e lo sguardo concentrato. I polmoni come un motore, il motore della rivalsa. 

Da lì in poi il fato beffardo deciderà di togliere ad Asta molto di quel che si era guadagnato. Infortuni gravi ne pregiudicheranno il proseguo della carriera, esperienze sfortunate, l'età che avanza, Asta si ritirerà al termine della stagione 2003-2004: la sua squadra, il Palermo, vincerà il campionato cadetto ma Asta non scenderà mai in campo a causa della rottura dell'astragalo della caviglia destra. La sua carriera termina così, con il retrogusto amaro tipico delle storie in cui l'imponderabile fa il suo avaro ingresso in scena. Il finale, però, non riesce a cancellare la magia di tutto ciò che è stato: Tonino ha rappresentato per molti la speranza di riuscire a diventare grandi partendo dal nulla, simbolo del calcio laborioso di provincia che, ogni tanto, regala al firmamento del pallone qualche piccola, luminosissima, cometa.  


Gian Maria Campedelli (Profilo Facebook Autore)

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