martedì 19 febbraio 2013

SUONI D'UNA VITA INCOMPIUTA. EDUARD STRELTSOV.

di Gianmarco Pacione (per seguirci su Fb clicca qui)


Un giovane Streltsov

Tic-tac. Tic-tac. Echeggia, monotono, il perpetuo richiamo dell’ascia che fende l’aria per poi tornare a contatto con il tronco ghiacciato. Ricorrenza inattaccabile. Il legno scalfito, le braccia stanche: è l'inverno del 1963.

Tic-tac. Tic-tac. Il tempo scorre, inesorabile. Gli occhi restano fissi a terra. La neve scende, fitta, a pochi metri di distanza, appare come la più amara delle visioni ad Eduard Streltsov; lo sguardo scappa per un istante verso quella bianca coltre, poi, immediatamente, torna a sondare la corteccia.

Tic-tac. Tic-tac. I piedi che si muovono, obbligati, congelati. Come i ricordi. Il magico dialogo tra la palla e quegli scarpini neri che non smetteva mai di lucidare, intonati perfettamente all’enorme T sul suo cuore. Il passato che riaffiora giorno dopo giorno, ora dopo ora, istante dopo istante: Eduard è al quinto anno di lavoro forzato in un gulag siberiano; Eduard è più che mai lontano dalla civiltà, lontano da Mosca, lontano dal pallone, lontano da se stesso.
Scena dal gulag di Streltsov
State lavorando di merda, se continuate così niente cena stasera!”. Parole che suonano come una banale cantilena: cliché d’arroganza e sinistra superiorità. A pronunciarle un ragazzino dalle guance rosse, vestito di tutto punto, adornato da spille dorate, falci e martelli, CCCP.

Sorride Streltsov. Un sorriso intenso, che quasi scade in una smorfia. Chissà se quel giovane l’ha mai visto gonfiare la rete, chissà se l’ha mai visto puntare l’avversario con i suoi dribbling poetici, chissà se l’ha mai visto infuocare i rigidi stadi russi. Chissà. La cravattina rossa, goffamente intonata alle guance, il cappello sistemato alla perfezione: immagini di spietato conformismo.

Sputa per terra l’ormai ex promessa del football di ventisei anni. Il sangue bacia la neve. Sputa addosso a tutto ciò che ha imparato ad odiare e combattere, ma non a sconfiggere.

Streltsov in divisa CCCP
Tic-tac. Tic-tac. Gli zoccoli bussano sul ghiaccio; arriva il comandante a cavallo. Anche per oggi abbastanza alberi sono stati abbattuti, abbastanza tronchi sono stati trasportati, Streltsov e gli altri “criminali” ritornano alle loro baracche. Di nuovo la cena, continua il nulla.

Nel bagno comune c’è uno specchio. Streltsov si ferma, come sempre: è un rito quotidiano, cosa non lo è d'altronde. Si osserva, alienato. "I miei capelli, dove stanno finendo...", quei capelli che gli erano valsi le prime critiche dal regime: troppo dandy, troppo provocante quella chioma bionda. Streltsov, un tempo, era troppo bello: muscoloso, viso scolpito, gambe dominanti. "Se solo potessi tornare a quegli anni...". Amava le donne alla follia, amava il calcio, amava divertirsi. Peccato che la sua giovane ingenuità l’avesse spinto troppo in là.

Le maglie bulgare davanti, il fluttuare tra loro: lo scatto e l’arresto, sempre con la palla tra i piedi. Il destro. Il gol. “Grande Ed, sei più forte di Pelè. È solo tua questa vittoria.”, tuona la pacca sulla spalla di Lev Jasin, il ragno nero.

Poi la luce improvvisa, flebile e crescente, gli occhi che si riaprono: bello sognare, bello tornare alle Olimpiadi di Melbourne del ’56. Lì Streltsov aveva passeggiato, letteralmente, vincendo la semifinale ai supplementari senza aiuti, senza fatica. “Non vi preoccupate, ne avrò di tempo per vincere ancora!”, così aveva risposto ai suoi compagni di Nazionale: volevano consegnargli la medaglia, nonostante avesse saltato la finale per scelta tecnica.

Poi ecco, di nuovo, i colpi sulla porta legnosa, le imprecazioni dalle altre brande. "Svegliatevi bastardi, si lavora". Il freddo, la flebile ed intermittente pisciata nel secchio, lo specchio. Tutto riflesso, ogni ricordo, come un infinito mosaico d’eventi, una spirale senza fine: eccoli passare, anche questa mattina. Sono sempre loro: i successi con la Torpedo, le notti di sesso e vodka, il 25 Maggio 1958.
 
Tic-tac. Tic-tac. L'ascia, l'albero, la neve. Pensieri.

Tic-tac. Tic-tac. 1958. Dall’immensa scalinata principale della dacia di Karakhanov sta scendendo una donna. Il rumore dei tacchi aumenta, musicalmente, i battiti di Streltsov. C’è aria di festa, sono tutti tirati a lucido. Streltsov ha abbandonato il ritiro pre-Mondiale per presenziare al ritorno a casa dell'amico militare. Pochi istanti ed è bloccato, paralizzato, dalla visione di quella signora: non è bella, non lo attira, mai la porterebbe in camera, eppure ha qualcosa di particolare.

Salve campione, sono Yekaterina Furtseva, mia figlia è letteralmente pazza di lei. Che ne penserebbe se le chiedessi di sposarla?”. Yekaterina Furtseva, la donna più potente dell’intera Unione Sovietica è lì, davanti al fenomeno della Torpedo, a proporre sua figlia come sposa.

Non sa che Streltsov è già fidanzato, respira aria di matrimonio: "Guardi, mi dispiace veramente ma... Ecco... La ringrazio, ma sono già fidanzato ufficialmente". Poi una frase, goliardica, inappropriata, fatale. Streltsov si gira verso il suo compagno di bevuta e ridacchiando pronuncia la sua condanna a morte: “Ho visto la figlia della Furtseva. Non sposerei mai una scimmia come quella”. Risate sommesse.

La Furtseva, o qualcuno per essa, ascolta e riferisce. Non aveva mai avuto peli sulla lingua il giovane moscovita. Era sempre stato sincero e diretto, fin troppo. Il giorno dopo, alla stessa ora, Eduard Streltsov, il più grande talento della storia calcistica russa, è dietro le sbarre: interrogato dal KGB nel durissimo carcere di Butirka. È accusato di stupro. "Stupro? Io? Non potete essere seri, sapete che mi vorrebbe qualsiasi donne russa. Mi devo sposare tra poco, non ha senso". Esattamente un anno prima, appena ventenne, era arrivato settimo nella graduatoria per il Pallone d’Oro.

L'appesantito Streltsov
Tic-tac. Tic-tac. Il generale osserva la nervosa sigaretta di Streltsov, a distanza d’un braccio. Sbatte veementemente una penna contro il tavolo: suona metallica, disturbante. Gli sguardi che s’intrecciano sono tanto vicini quanto distanti. Streltsov sa di non piacere al KGB e al governo: non solo per i suoi atteggiamenti, per la sua sregolatezza. A pesare, moltissimo, sono i freschi rifiuti a CSKA e Dinamo: il ventenne fantasista aveva risposto con un secco no, come ai piedi della scalinata di Karakhanov, alle società legate rispettivamente ad esercito e KGB.

Aveva preferito restare nella sua Torpedo dei miracoli, per sfidare i grandi, i potenti.

Firmi qui e la mandiamo a giocare i Mondiali in Svezia, su”. La mano curata si muove e con essa la penna sul foglio. L'illusoria speranza svanisce con la comparsa dell'inchiostro: è spacciato. Streltsov firma la sua condanna a 12 anni di lavori forzati.

A metà ’65 torna a Mosca un irriconoscibile campione. 7 anni di tic-tac, 7 anni d'assenza ingiustificata. Streltsov ora ha 28 anni ed è irrimediabilmente decaduto, fuori forma: eppure, eppure vuole dimostrare di saper ancora armonizzare con la palla tra i piedi.

Tic-tac, tic-tac. La ceramica dello spogliatoio fa risaltare la durezza dei tacchetti di ferro. Gli scarpini neri, finalmente, ritornano ad intonarsi con la T: segnati dalle fatiche, consapevoli d’aver aspettato troppo a lungo quei prati verdi.

In età giovanile
Eduard Streltsov è cambiato, è più conservativo: non parla mai di quella maledetta parentesi, di quella caduta negl’inferi ghiacciati. Eduard Streltsov è più riflessivo, in campo e fuori: non ha più il passo, il cambio di velocità... Ha la classe.

Segna tantissimo, sempre in maglia Torpedo. Vince e fa vincere. È calciatore dell’anno russo sia nel ’67 che nel ’68, con la nazionale non si limita, non mostra rimorsi d’alcun tipo: a causa del suo passato è conscio di non poter mai più giocare al di fuori del suolo sovietico, glielo vieta la legge. Sa che non avrà più la possibilità di vincere davanti al mondo, di dimostrare le sue immense qualità, di far capire che nonostante i tronchi portati sulle spalle, le notti gelide siberiane, le umiliazioni patite, i piedi ed il talento sono cristallini più che mai.

Tic-tac. Tic-tac. 20 luglio 1990. Grondano le lacrime, si piegano le gambe. Cresce il frenetico viavai di tute di rappresentanza, di vecchi allenatori, di grandi appassionati, d’oppositori del regime.

Tic-tac. Tic-tac. La bara viene sigillata, i chiodi battuti sanciscono l'ultimo coro ripetuto: hanno lo stesso rumore di quei tacchi a casa Karakhanov. Eduard Streltsov muore a 53 anni. È un cancro a trascinarlo via: frutto degli anni nel gulag, dove oltre ai grandi tronchi d’albero era costretto a lavorare in miniera, senza protezioni. Di questo al figlio ed alla moglie non ha mai fatto parola: voleva proteggerli dal suo passato e dal loro presente.

Solo un attimo prima di morire, Eduard, con i profondi occhi azzurri, quelli di sempre, chiama da parte la moglie. Il respiro affannoso. “Amore mio, ti giuro, non ho toccato nessuna ragazza quella notte, è stato tutto un complotto per rovinarmi”. Testamento d’innocenza. Le urla liberatorie di una donna che, all’ultimo istante, riesce a capire completamente l’uomo che con lei ha condiviso la vita.

La statua all'esterno dello stadio dedicata
Tic-tac. Tic-tac. È un suono soffice, puro. Le piccole sfere di neve vanno ad adagiarsi delicatamente, quasi rispettose, sul granito scuro, poi eccole fare capolino sul cappello d'un bambino: porta una T sul petto anche lui, come Streltsov un tempo. Osserva la grande statua dalla base alla testa, incuriosito; per qualche istante pare assumere la sua posa. Gennaio 2015, la Torpedo vaga sonnambula nella tetra Terza Divisione Russa: “Papà, chi è lui?” domanda stringendo la mano alla grande sagoma al suo fianco.

Vedi lo stadio dietro di noi? È dedicato a questo campione. Ad Eduard Streltsov, un calciatore che ha combattuto tanto per poter giocare con la maglia che indossi. Sai, a volte la vita non ti dà tutto ciò che meriti. Per un attimo non pensare a Balotelli e Ronaldo, a Zhirkov e Jasin. Lui,  figliolo, è il più grande di sempre, lui è e sarà l’unico Pelè bianco”.   




      

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