venerdì 28 giugno 2013

AFRO ELEGANTE: ARTHUR ASHE E JOSÉ VELASQUEZ

di Gianmarco Pacione












"Ricchi si diventa, eleganti si nasce"
Honoré de Balzac-Trattato della vita elegante (1830)

Lo ammetto, ancora oggi ho il pallino dei capelli afro. Non perchè sogni sparatorie tra Crips e Bloods, pantaloni a vita bassa e bandane multicolore condite da denti dorati; sia chiaro, li vorrei semplicemente per risultare elegante.
La coppa di Wimbledon alzata da Ashe

Equazione stravagante, ma facilmente spiegabile.

Definirmi immaturo durante gli anni delle superiori penso fosse e sia molto limitante. Andavo alla scoperta dei primi miti sportivi, delle apparenti storie di nicchia di Sport Week; ero fierissimo dell'omonimia con Gianmarco Frezza. Predicavo qualità di Leo Junior ai miei amici senza neppure averlo visto giocare una singola volta, simulavo falli subiti durante le partite di calcetto a scuola. Vivevo in un mondo al limite tra lo psicotico e l'inspiegabile.

In tutta questa baraonda dell'originale superfluo avevo una fissa, nata per caso.


All'epoca ero un enorme appassionato di tennis (e per enorme intendo un insaziabile degustatore, disposto a guardare tre partite da cinque set al giorno. Si, forse uno scemo, fate voi). Amavo Wimbledon, lo amo ancora, ma a quattordici-quindici anni passavo settimane di clausura per gustarmi quegli eroi vestiti di bianco. Spettri eleganti dalle braccia bioniche.

Ashe in una discesa a rete
Allevato e cullato dalle telecronache al capezzale di Tommasi e Clerici. Fu proprio Rino ad intonare la frase d'Honoré de Balzac, la usò per descrivere un giovane Federer. Non si limitò a questo però, proprio in quegli attimi fece un nome, un paragone "enfatico" dei suoi, chiamò in causa Arthur Ashe.

Ricerche su ricerche, ed ecco la mia nuova mania per gli afro. Ashe, tennista statunitense degli anni '60 e '70, era un diverso. Non era un agiato figlio della classica famiglia Cunningham.

Innanzitutto era nero, per l'epoca non propriamente una consuetudine. Unico del suo colore a pensare di vivere di tennis, unico del suo colore a ricevere una borsa di studio da UCLA per buttare la pallina al di là della rete.

Altre caratteristiche: era lungo lungo (185 cm) ed incredibilmente elegante in ogni singola giocata. Poi, poi era incoronato da una sorta di cespuglio, un capello incredibile che lo accompagnava in tutte le sfide. 

La negazione ed affermazione delle proprie origini. Un simbolo, i capelli, opposto ad un'innata arte: la fine delicatezza dei movimenti. 

Ancora oggi rimane il solo coloured ad aver vinto US Open, Australian Open e Wimbledon. Proprio quest'ultima è stato la sua più grande impresa, a fine carriera, in una finale storica contro Jimmy Connors. Una vittoria folkloristica e leggendaria per quel leggiadro ragazzone di colore, impettito nel suo completo bianco.

Raffinato ispiratore anche fuori dal campo, dove ha combattuto, per anni, razzismo ed AIDS, uscendo vincitore solo da una di queste due battaglie, materialmente.

I video (anche se pochi) incantano. I diritti, i rovesci, le volèe. La fluidità e la ricchezza tecnica. I lampi di creatività. Gli afro.

Il sorriso di Velasquez
Quegli stessi afro che ho incontrato, per caso, nei pochi istanti che hanno preceduto quest'articolo. Doveva essere un omaggio ad un tennista, ad un artista, una sorta di scampagnata idealista in un mondo per tutti e di nessuno. Ma il pallone non può restare lontano dalla mia, dalle nostre menti, ormai è una legge assodata.

Ashe mi ha consegnato delle chiavi, perennemente pronte a colmare l'instancabile serratura dello sportivo "bello da vedere", dell'atleta esteticamente perfetto, tenuto in vita dalle particolarità. A distanza di sei anni ritrovo le sue stesse caratteristiche in José Velasquez Castillo.

La blanquiroja peruviana è la maglia più esaltante al mondo, lo ammetto candidamente. Pensavo raggiungesse l'apice d'alone leggendario nelle immagini di Teofilo Cubillas, il Pelè del Perù. Così non è. C'ha pensato "el Patron" Velasquez a donarle un fascino irraggiungibile.

Figurina di Velasquez
Sono link improbabili, di blog nostalgici sudamericani, a farmi conoscere quest'icona dell'eleganza. Contornato anche lui dagli anni '70, nato nella Lima dei flauti, del cibo difficilmente reperibile e delle strade polverose.

L'Ashe dei prati verdi sudamericani: il fisico, i capelli, le movenze. Due gocce d'acqua, una immersa nell'oceano delle racchette, l'altra in quello del futbol.

Narrano fosse una diga insuperabile, "il padrone". Raccontano sottovoce, davanti a falò andini, che capisse le intenzioni dell'avversario con secondi d'anticipo e che, nella sua mente, preparasse già un piano per il contropiede.

A me non restano che poche, sbiadite immagini per abbassare il capo porgendogli i miei ringraziamenti. La banda rossa diagonale, la carnagione scura, la passione per il jazz, le basette dominanti.

Anche lui inconscio portatore sano d'una luce più brillante di tutte le gemme preziose appese, forzatamente, al collo delle nobili, di tutti gli anelli e gli orologi sfarzosi, umili decoratori di corpi baciati dalla fortuna del denaro, ma mai pienamente dalla dea Eleganza. 

Fusioni di religioni e d'intenti, d'assurde combinazioni. Autentica celebrazione del divino in pantaloncini.

Ashe e Velasquez: uomini, giocatori ed opere d'arte.

El Patron esulta dopo un gol
Pago caro il biglietto di questo museo del tempo per dar loro una breve occhiata. Lo pago in continuazione, sorridendo e capendo che Honoré de Balzac non aveva tutti i torti nel dare così tanta importanza all'eleganza.

Fattore unico di distinzione nello sport, di sguardi attirati, d'emozioni procurate.

Perchè io, in fondo, sarò sempre il ragazzo delle superiori, lo psicotico esteta. Sarò cocciuto, completamente irragionevole, abbandonato volontariamente tra le mie devianze mentali, irrimediabilmente innamorato di certi eroi sperduti.

Vorrò sempre quegli afro, li vorrò a quaranta e settant'anni. Vorrò sempre giocare a tennis come Ashe e a calcio come Velasquez.

Lo so Honoré, non scuotere la testa, eleganti si nasce, ma in fondo, a me, non costa nulla sognare.





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