mercoledì 26 giugno 2013

SOGNARE IL CALCIO SOCIALE: LA FAME DI FOOTBALL E LA SETE DI POLITICA

di Gian Maria Campedelli (per seguirci su Facebook CLICCA QUI)

C'è qualcosa che non quadra. Ed è un bene. “Football not politics” è uno dei motti più in voga fra puristi, funzionari e affaristi del calcio: tre categorie nettamente distinte che però, almeno su questo punto, vogliono pensarla allo stesso modo. Il calcio non è politica, fuori la politica dagli stadi, niente politica a ridosso del prato verde. Ma il calcio è un gioco e molto altro di più, e allora cosa succede quando il suo popolo scende dagli spalti e si riversa nelle strade?


Non ho mai condiviso il messaggio di quello slogan. Ovunque io abbia potuto ammirare un pallone rotolare mi è sempre parso di vederci dentro molto di più. Spesso sono stato amichevolmente accusato di vedere “il tutto nel niente”, ma tant'è. Dalla  valorosa fatica silenziosa dei campetti di paese, alle (ahinoi) enormi quantità di denaro spostate di qua e di là a seguito dell'andamento di una partita di calcio internazionale. Ecco la finanza sotterranea del calcio: milioni di euro che piovono sulle teste pettinate alla moda dei giocatori di un club dopo un gol, gli stessi milioni che scompaiono e vanno a rimpinzare i conti degli avversari qualche minuto dopo, a seguito di un'altra decisiva rete. Un ping pong costoso. Ma non è finita qui. Il pallone che rotola si porta via con sé speranze e desideri di uomini tristi e felici, poveri e ricchi. Trascina le masse, è evasione da quel mondo alienato al quale il tifoso dovrà tornare dopo il triplice fischio. E' un mondo parallelo, è economia, finanza, sociologia, diritto, storia, geografia. Il calcio sembra quasi un' Università, un' Università in  bollente fermento, perché se anche la nazione che più di tutte ha rappresentato nel tempo l'essenza felice e spensierata del gioco, il Brasile, si ribella al contempo contro il governo di Dilma Rousseff e contro la FIFA significa che politica e calcio stanno insieme, dividendosi anima e cuore di chi è tifoso, sì, ma prima di tutto Uomo. 

Proteste in Brasile contro la Coppa del Mondo
(foto: formiche.net) 


La logica del calcio come valvola di potere e opportunità di arricchimento ha sfondato ogni argine morale: la gente muore, i popoli sono costretti a piegare la schiena per raccogliere i rancidi avanzi di un sistema inesatto, ingiusto, infame, ciò che è puro diventa inesorabilmente marcio, perché il potere persuade, ipnotizza, deforma la realtà, ed eccone le conseguenze: un'arte, quella del futebol, che viene corrotta dai signori della FIFA (e dell'UEFA), viene corrotta a tal punto da ferire l'anima di ogni singolo tifoso, sostenitore, appassionato. In Brasile si scende nelle strade per dire basta ad una politica poco limpida, agli sprechi, ai tagli all'istruzione e alla sanità, al rincaro di servizi e alla cementificazione selvaggia. Ma non solo: ci si riversa in piazza anche per dire stop al “calcio dei pochi” che toglie ossigeno a chi, invece, soffoca nella quotidiana precaria povertà di denaro e sentimenti. Si scende per le strade per urlare contro i nemici del popolo sovrano e sognatore, e lo si fa con tutta la rabbia che un corpo straziato può consentire, la rabbia di chi sa di avere poco, materialmente poco, e di chi, oltretutto, si sente derubato di un gioco e di un sogno che, in terra carioca, dovrebbe essere di proprietà di tutti. Nessuno escluso. L'ottica socialista e ridente di un calcio che scompare, di giorno in giorno, impiccato pubblicamente e impunemente da avidi speculatori senza scrupoli.


Scontri dei rivoltosi brasiliani contro le forze dell'ordine
(foto: lettera43.it)

Le urla, gli scontri, le rivolte diventano testimonianza di dignità, di vita: ecco perché calcio è, in molte delle sue accezioni, politica. E' il difendere un'essenza che svanisce, è il dire NO ad un mondo accecato dalla sete di potere, di ricchezza, dalle ingerenze della politica estera, un mondo sfregiato, deturpato. E' anche dire NO, senza distinzione di nazionalità e colori sociali, all'organizzazione di un campionato europeo giovanile (giovanile!) in un Paese come Israele, macchiato dal sangue di giovani generazioni sacrificate in nome di una sporca meta. Il calcio è politica quando, ad Istanbul, si scende in strada con addosso le maglie di Galatasaray, Besiktas e Fenerbache, mettendo da parte la rivalità e l'odio consumato sugli spalti da decenni, unendo la propria fame di giustizia sociale, di speranza, di cambiamento. 
Striscione livornese contro
 gli Europei U21 in Israele.

Questo vivido popolo universale ha cominciato a dire basta ad un calcio malato e ai suoi esecrabili governatori, manager di un'industria mafiosa, assassina, ultracapitalista. Sognare un ritorno alle origini è un diritto, sabotare questa macchina infernale, invece, un dovere. Ieri come oggi, oggi come domani, lottare per un calcio più umano, con una penna o a mani nude, è il compito di chi vive per un'ideale senza compromessi.


“Football not politics”, ma chi ci crede più?

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