sabato 15 giugno 2013

"LOCO", STANZA NUMERO 5. JUAN PABLO GARCIA.



 di Gianmarco Pacione (per la quarta puntata clicca qui)
Primo piano del "Loquito"
Abbandono un carnevale senza fine. Mi sento ubriaco di sensazioni, di gioia, d’umanità. Sono felice, felice d’essere al fianco del dottor Escobar, felice d’essere a La Paz in questo manicomio incredibile, felice di tutto ciò che mi circonda. 

Me lo sento, è proprio qui, stampato sul mio volto: è il sorriso da scemo che mi accompagna da anni ormai; quell’espressione ammaliata, involontariamente impostata. “Cosa fai? Guarda che ti entrano le mosche in bocca così!”, come dimenticarsi della più classica frase del nonno, come non ricordarsi del suo schiaffetto bonaria davanti ad ogni mio boccheggio meravigliato. Bastava poco, pochissimo: una discesa d’Eriberto e Manfredini, l’arte pagana di Riganò nel bucare la rete, l’esultanza di Mark Bresciano.

Rivivo istantaneamente un passato bellissimo, sento il divano, sento la sala colma d’amici e risate. Viaggio nel viaggio, vacanza nella vacanza.

Garcia in gol con il Tigres
Poi una poltrona, vera. È lì, sul lato del corridoio, fissa davanti a me, affiancata da un tavolino incoronato da una pianta grassa. C’è un uomo seduto. È solo, è rigido. Continua a controllare l’orologio al suo polso. Mi avvicino ancora. Ma come? Eccentrica visione: gli orologi sono tre, due sui polsi ed uno sul tavolino, a stretto contatto con la pianta.


Sento il mio sorriso trasformarsi in una smorfia dubbiosa. Tre orologi. Il colpo finale in questa battaglia ad un buon senso senza scopo né coordinate, arriva senza preavviso, disorientante.

Dottor Escobar, è ora?”.

Il mio compagno di viaggio pare sereno, osserva il suo simil-Swatch e scandisce una risposta apparentemente indecifrabile: “No Juan Pablo, stai tranquillo, non è ancora ora.”. L’uomo a quel punto ributta l’occhio vicino agli aculei, sopra le sue mani. “Ah, non è ancora ora…beh, io sono pronto, lo sa bene lei, ne parli in giro!”. Le sue gambe restano immobili, come tronchi, i muscoli contratti, la schiena innaturale, il collo teso. Irrequietezza, totale ed ignota irrequietezza.

Escobar mi porge la cartella, ho un flash, ancora il mio divano, ancora la bocca aperta. Juan Pablo Garcia, proprio quel mio primo acquisto nel “Campionato Master” del Bologna dei miracoli, quando PES rappresentava tutta la mia vita virtuale (e non solo). Strane le vie della conoscenza, specie se legate a joystick pestati ed amati con lo stesso ritmo.

Non ero però mai andato oltre quel “ES” che indicava le sue caratteristiche d’esterno avanzato, non avevo mai approfondito le sue qualità tecniche al di fuori dei dati preconfigurati (e di dubbissima veridicità) della Konami. Speciale, inventore, luminare della fascia. Doti a me sconosciute, limitate al classico “quadrato+X”, seguite dalla scelta del “triangolo” filtrante o del tiro a giro.

Juan Pablo durante un allenamento con la sua squadra attuale
Orologi, il tempo che passa. Ma per cos’è pronto questo mio antico pupillo dai lineamenti particolari, confinanti tra l’alieno e Antonio Banderas? Cosa aspetta così impaziente?

Attende una chiamata, la possibilità di dimostrare veramente quanto vale. Passa ogni singolo giorno osservando morbosamente gli orologi, turnando lo sguardo. – confessa Escobar indicandomi il “Loquito” – Non è un ragazzo come gli altri, ha sempre avuto una sicurezza incredibile nei propri mezzi, ha sempre pensato di poter sfondare ai massimi livelli, d’arrivare a dominare in Europa e con la maglia della nazionale messicana. Invece, invece è sempre rimasto nel più duro e crudele degli anonimati. Ha vagabondato qua e là, passando da una parte all’altra del confine tra USA e Mexico come una pallina da tennis sopra la rete. Migrazioni strettamente legate a colpi di matto, strascichi di vita tra mani addosso a direttori sportivi, dichiarazioni contro giocatori stranieri, momenti di sovrappeso. In campo, però, un genio: tocchi sublimi misti ad un’irripetibile carenza di banalità.

Dottor Escobar, c’è qualche novità?”.

Nulla Juan Pablo, magari nel tardo pomeriggio…”. Ancora gli orologi, ancora la nervosa attesa.

Lui è nato nella periferia di Guadalajara, sai italiano, posto non facilissimo. Ha cominciato nell’Atlas, era un creatore divino, completamente fuori luogo, un predicatore nel deserto. Ruppe per un discorso economico, alzando toni e mani. Poi USA, in maglia Chivas, alla disperata ricerca di visibilità e continuità fisica.”.

Dottor Escobar, mi scusi, ma sa proprio niente del PSV? Mi doveva chiamare il direttore sportivo.”.

Escobar ignora l’ennesima richiesta, si atteggia come un pusher sprovvisto di merce davanti ad un bisognoso cliente.

Garcia dopo l'operazione al ginocchio
Il paziente non sa che ad Eindhoven hanno solo pensato a lui, per poco più d’una settimana, poi nulla di fatto. Non se n’è ancora reso conto. Da sette anni ormai crede di raggiungere Salcido in Olanda. Continua a ripetere di meritarsi questa chance, ostinatamente e, molto probabilmente, a ragione. Ma sai, la gloria e la sorte vanno a braccetto con pochissimi spasimanti. A modo suo il Loquito (così lo chiamano) è l’emblema dell’incompiutezza, di tutte quelle promesse del futbol obbligate, da un destino risoluto e selettivo, alla relegazione nel crudele patibolo dell’oscurità, della massa informe. Così, dopo l’esperienza in MLS, è tornato presto in Messico, prima nel Tigres e nei Giaguari di Chiapas, poi  nel Puebla, infine nel Merida. Ha vissuto tanta, tantissima panchina. Una carriera sfortunata, giustamente culminata nei problemi al ginocchio degli ultimi anni, con uno stop di più di sei mesi nel campionato passato.”.

Scusi, dottor Escobar, novità?”. Ancora.

Scuote la testa il medico. Juan Pablo passa nuovamente in rassegna i suoi freddi cronometri, unici riferimenti vitali. Non mi ha degnato d’un saluto, d’uno sguardo. È totalmente assorto nella sua brama di giocare, di dimostrare. Vuole una carriera, vuole minuti, vuole la fama: non ha nulla, o quasi.

Vedi italiano, si, questo paziente è molto strano, forse il più traumatizzante di tutti. Eppure c’è una cosa che si tiene ben stretto: la consapevolezza d’essere un fenomeno. Lo sente, lo dimostra, lo emana. Un’inesauribile forza di volontà, una speranza che mai potremmo portargli via.”.

Ehi, dottor Escobar, chi è questo qui? Un osservatore?”.

El "Loquito" in azione
No Loquito, è solo uno scrittore italiano.”.

Non me la racconta giusta dottor Escobar, lo sapevo che sarebbe venuto qualcuno a visionarmi dall’Italia, me lo sentivo. Per che squadra lavora? Inter? Roma? Juventus? Mi basterebbe anche la Fiorentina!”.

Ride Juan Pablo, si alza in piedi ed inizia a scattare lungo il corridoio.

Guardi qui -sbuffa- sono in forma smagliante.”.

D’un tratto spunta un pallone, ed eccolo definire il concetto di poesia in movimento.Suola che spalma amore su quella pelota, sospiri che accompagnano la teatrale esibizione.

Quindi? Sono pronto? L’ho convinta?”.

Si toglie gli orologi dai polsi, quasi fosse un istante sognato per una vita intera. Ricomincia a disegnare linee e forme degne del miglior giocoliere. Ha abbandonato il tempo, non ha più bisogno del passato o del futuro. La sua esistenza è racchiusa in questa possibilità. Lo guardo, noto la forza di volontà di cui mi parlava Escobar. Vedo il bambino che si allenava per ore nella polvere di Guadalajara, vedo l’uomo che per anni ha osservato una cornetta attendendo lo squillo giusto.

Durante un'intervista
Andata, l’abbiamo presa, è veramente un grandissimo giocatore, i miei complimenti!”.

Non riesco a dire altro. Poi la gioia. Un uomo colmato in tutte le sue lacune. Ho appena regalato felicità, più pazzo che mai, senza nemmeno riflettere. Ma a che prezzo? Che osservatore potrei mai essere? Eppure quel momento ripaga Juan Pablo di tutto, lo sento, sono emozionato, sono soddisfatto.

L’attimo che vale la vita. A poco conta un futuro di nuovo al fianco d’orologi ed irrequietezza. Me ne vado così, promettendo un contratto che mai potrò nemmeno immaginare di proporre. Me ne vado nelle vesti d’un inventato osservatore, d’un appagato benefattore. Solidale, certo, ma fino a che punto?

Hai fatto la cosa giusta italiano. Lui sarà comunque Loco fino alla fine dei suoi giorni, almeno così avrà sempre la certezza d’essere un talento, un fenomeno. Grazie alle tue parole sarà consapevole, una volta di più, di valere più di tutti quelli che l’hanno snobbato.”.

Poco oltre la poltrona scorgo solo ora una televisione accesa, la stessa che sentivo ormai da due stanze. Un uomo vestito di tutto punto, evidenziato dal primo piano delle telecamere, sta facendo osservazioni che paiono pesantissime. 

Volto le spalle a Juan Pablo Garcia, volto le spalle al suo corpo già irrigidito, tornato composto sulla poltrona, assieme agli orologi.

È bastato un istante per ritornare nella condizione precedente. L’attesa, la gioia, lui, io, tutto folle ed irrazionale. Meglio tornare alla tv, meglio chiedere ad Escobar chi sia quest’Eduardo Bonvallet che gesticola senza sosta.

Sono scombussolato, non voglio pensare al "Loquito", non voglio nemmeno provare ad immaginare cosa possano implicare le sfaccettature di un'esistenza del genere. Allo stesso modo voglio che lui non pensi a me per il resto della sua vita, voglio che dimentichi il mio volto e che si ricordi solamente della mia promessa.

In fondo voglio che questo pazzo continui a sentirsi un predestinato, voglio che continui ad esaltarsi, voglio che continui a tifare per se stesso.

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