venerdì 21 dicembre 2012

PARIDE TUMBURUS, UNA STORIA AMARA

di Gian Maria Campedelli

Tumburus in maglia felsinea

Correndo con la mente all'indietro nel tempo è impossibile riuscire a demarcare nitidamente il momento in cui il calcio si è trasformato da Sport a tentacolare industria. Come in tutti i processi storici, anche nelle più turbolente e rapide rivoluzioni, gli eventi cambiano (più o meno) lentamente ed arrivano ad un punto di rottura tramite periodi di dinamica gestazione. I Morcheeba, ad inizio millennio, ci ricordavano che “Roma non fu costruita in un giorno”, ed il concetto vale anche, sostanzialmente, per la formazione del calcio come sfruttamento economico, come possibilità di arricchimento che esula dalla bellezza delle forme e del gioco.

Se non possiamo dunque individuare un momento preciso che segni questo cambiamento riusciamo tuttavia a riscoprire qualche storia che, col senno di poi, ci dia l'idea di come effettivamente il passaggio, per quanto lento, potesse essere comunque doloroso e profondamente amaro, per i semplici appassionati, per i tifosi e per i giocatori stessi. Una di queste storie è quella di Paride Tumburus.



Il nome evoca già di per sé fascino e curiosità, quasi simpatia. Evidentemente il destino per Tumburus non prova nulla di tutto ciò. Paride nasce ad Aquileia, ex colonia romana in provincia di Udine, cittadina che ha dato i natali anche a Papa Pio I e a Luigi Del Neri. Cresce in fretta grazie al pallone: a vent'anni, nel 1959, arriva a Bologna.


La città felsinea, negli anni sessanta, è tutt'altro che alla periferia del pallone. Tumburus è un difensore che fa anche il centrocampista, e dopo aver esordito con il Vicenza nel 1960 si prende il posto da titolare e non lo molla più. Disputa anche le Olimpiadi di Roma con la Nazionale italiana, esordisce al Mondiale del 1962 contro il Cile e, nel 1964, corona il sogno di vincere il campionato con i rossoblu, battendo in uno spareggio da romanzo l'Inter di Herrera appena laureatasi campione d'Europa.

Paride rimane a Bologna fino al 1968: dopo nove stagioni decide che è tempo di cambiare. Lo spazio, sul prato del Comunale, è sempre meno. Alla soglia dei trent'anni, Tumburus approda a Vicenza. Con il Lanerossi rimane due anni: nel sessantanove segna il suo record personale di reti in una stagione (6) e conquista un'agoniata salvezza. L'anno dopo, invece, colleziona una sola presenza.

Le cose cominciano a cambiare, anzi, sono già cambiate. Il destino sta mettendo in atto un epilogo grottesco. Paride, dopo duecentotrentadue presenze e dieci reti nella massima categoria, lascia la Serie A. Il Vicenza lo cede in comproprietà al Rovereto, in Serie C. Ciò che accade di lì a poco è sconcertante. Lo è oggi ma, ed è questo che ci deve dare l'idea del cambiamento totale a cui il popolo stava assistendo di anno in anno, lo era ancora di più al tempo.

Al termine della stagione il destino del giocatore viene deciso alle buste. A quei tempi un quotidiano costava cinquanta lire. Il Vicenza per Paride ne offre centosettantacinque, il Rovereto venticinque. Paride viene valutato, davanti a tutta Italia, quanto, al massimo, tre copie del Corriere della Sera e poco più. Per la dirigenza del Rovereto, Tumburus, vale come un francobollo. L'umiliazione è, come ogni storia che parli di calcio,sotto gli occhi di tutti. Il Vicenza di Giussy Farina si aggiudica il giocatore, ma questo è il proseguimento di una storia che in realtà è già finita.

A Vicenza
Tumburus, a titolo di cronaca, continuerà a giocare nelle serie minori, diventando poi allenatore. Il governo del calcio decide, in seguito alle strazianti offerte delle due squadre, di istituire una soglia minima di offerta: centomila lire. Paride esce di scena, come il più bistrattato fra gli attori, senza che nessuno ne conservi la memoria. Ne parla qualcuno, soprattutto con l'avvento di internet, ma non sempre secondo il reale andamento dei fatti. Tumburus diventa, o dovrebbe diventare, una metafora.. La metafora della ferocia con la quale il calcio sta cambiando pelle. Da uno sport fatto di uomini, di azioni, di sogni ad uno sport fatto di cifre, di investimenti, di spersonalizzazione. Negli ultimi decenni questa evoluzione ha perfezionato le sue mastodontiche proporzioni senza lasciare aree incontaminate. Chiunque viene pagato, spesso sproporzionatamente rispetto al proprio valore, in qualsiasi campionato: dai ragazzini promettenti contesi dai vivai delle società professionistiche, alle vecchie (presunte) glorie che calcano i campi di periferia, quelli che negli spogliatoi a fine allenamento, fra un tatuaggio e un capello bianco, raccontano che “quando avevo sedici anni ho fatto il ritiro a Coverciano e...”.

I soldi hanno invaso il calcio senza criterio, emergono da ogni fessura, sempre e comunque. Che ci sia la crisi o che non ci sia la crisi. Chiunque, in una prima squadra, gioca per i soldi. Il danaro è diventato la benzina da mettere nel portafoglio del giocatore perché poi la domenica dia tutto quello che ha da dare, se va bene. Tante volte invece ci si rende conto di pagare fior di quattrini per gente che con quei soldi vuole solo andarci a puttane, e della tua società che vuole andare in serie D non gliene frega nulla. “Tanto l'anno prossimo voglio andare via, cambio aria”.

I soldi hanno tolto al calcio il naturale fuoco sacro che brucia dentro ogni giocatore, il fuoco della passione, a prescindere dal guadagno ad ogni costo. Paride Tumburus fu costretto a cambiare aria per varie ragioni. Dalla nazionale alla terza serie. In poco tempo, come un vecchio elettrodomestico che non serve più. Scaricato a bordo strada, infine, senza nemmeno la dignità d'esser accompagnato alla discarica. Per risparmiare centoventicinque lire di benzina, magari.

Paride Tumburus non è un eroe, nemmeno lontanamente. E' un simbolo, un involontario simbolo. Senza drammi o mitizzazioni: è stato il prodotto reale del nuovo calcio in filigrana che stava facendosi largo tra i versi armonici di un gioco che ancora sapeva di poesia.  

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