venerdì 21 dicembre 2012

RACCONTO BREVE: BUENOS AIRES SKYLINE


Ramon se ne stava in piedi, di fronte alla finestra che dava su Calle Hortega. Per strada vecchiette e nipoti tornavano dal mercato rionale, qualche macchina ogni tanto, nubi di gas. Tirava un venticello fresco, piacevole. Stava pensando a sua moglie Carla, a Joseph, il figlio, e Anita, la piccolina. Poi gli vennero in mente i mesi estivi di qualche anno prima: le feste in Europa, il trasferimento a Londra, le passeggiate su e giù per la city, la loro casa vicino ad Highbury. Era fermo lì da così tante ore, a pensare, a farsi del male, che oramai faceva parte dell’arredamento della camera. Nel tardo pomeriggio bussarono alla porta.
“Sono Andres, tra un’ora partiamo”.
Non rispose.

“Mi hai sentito?”
“Sì”, fece con un filo di voce.
Si voltò verso il letto singolo che stava nell’angolo opposto della stanza e cercò con lo sguardo il giornale tra le lenzuola arruffate. Il completo della società, il Boca, se ne stava appeso dentro l’armadio semiaperto, gli diede un’occhiata, scostò subito lo sguardo.
Lui quella partita non l’avrebbe giocata, in ogni caso.
Un cane iniziò ad abbaiare e Ramon si girò di nuovo verso le strada, in lontananza il sole scendeva dietro i palazzi di Buenos Aires e la città cominciava a illuminarsi di neon e lampadine alogene. Decise di lavarsi velocemente e quando uscì dal bagno s’era fatto ancora più buio. L’immagine della stanza completamente offuscata era quasi surreale: il finestrone gettava luce sulla moquette e sulla scrivania dove poggiava ancora qualche bottiglia di birra. Il letto era immerso nel buio e così anche l’armadio. Se ne stette sull’uscio del bagno per una decina di secondi, gli sembrava di stare sulla luna. Accese poi l’abat-jour, annaspando nelle tenebre delle lenzuola, e prese il giornale.
Il quotidiano era aperto sulla pagina sportiva, da due giorni oramai. Sempre lì. Il titolone recitava “La nuova leva di Buenos Aires”. C’erano le foto del suo assassino, Jaime Gasquez, così bello e giovane e adulato da tutti. “Diventare déi alla Boca”. Quando Ramon fece la sua prima tripletta alla Bombonera il Clarìn gli aveva dedicato un’intervista intitolata così. Lui aveva conservato quella pagina e se la portava ovunque. Se l’era portata a Londra, a Madrid, poi a Roma e Lisbona. Ora non era più il suo tempo, ora c’era Gasquez.
A Ramon la vita aveva dato e tolto tutto, ogni cosa. Gli rimaneva solo il completo del Boca, nient’altro. Un triste completo grigio. Nessuno lo ascoltava più, nessuno lo cercava per giocare a poker dopo gli allenamenti, nessun giornale lo voleva intervistare. Era diventato un fantasma e tutti lo sapevano, era in rosa solo perché il presidente si ricordava delle sue gesta in gioventù e gli era riconoscente. Lo stipendio era misero e lui non aveva nessun risparmio messo da parte. Tutti i soldi guadagnati in Europa se n’erano andati con il gioco d’azzardo e con investimenti fallimentari. Sua moglie Carla se ne stava dalla madre, non gli permetteva di vedere i figli, aveva perso tutti i suoi vecchi amici storici: quelli del quartiere erano tutti morti, quelli dei primi anni da professionista non li vedeva da anni. A Ramon la vita aveva dato e tolto tutto, ogni cosa. Lo scorrere del tempo sciupava il suo mito, ogni giorno di più, e quella domenica era riuscita a consumare ogni speranza, ogni sogno. Boca Juniores-River Plate alla Bombonera alla Bombonera. Chi avrebbe vinto si sarebbe portato a casa il Clausura. Tutta la capitale, tutta la nazione, tutto il continente, tutti aspettavano quella partita da mesi. E si sapeva, il Boca avrebbe vinto. Troppo più forte. Avrebbe festeggiato il titolo contro i nemici di sempre. Quella favola, però, non era stata scritta per lui. Non era stato nemmeno convocato, ma dovette comunque seguire il ritiro all’Hotel San Francisco. Era la tortura peggiore. Alla vigilia della partita più importante dell’anno, la partita per la quale non era stato nemmeno inserito fra i convocati, venne obbligato a rimanere fianco a fianco con i suoi compagni, tutti più giovani, tutti in rampa di lancio, tutti affermati, tutti convocati. Tutti sull’orlo della gloria, pronti a lasciarsi andare, a farsi trascinare nella leggenda. Lui era l’unico non inserito in lista insieme al terzo portiere, un ragazzone di diciassette anni che era già stato opzionato da una squadra spagnola e a Leandro Liberti che, però, ottenne di poter saltare il ritiro per farsi curare il ginocchio malandato. Gomito a gomito con tutti gli altri per due giorni, dovette ascoltare i consigli dell’allenatore nelle riunioni del dopocena, dovette allenarsi pur sapendo che il suo posto sarebbe stato in tribuna. Gli diedero la stessa camera di sempre, la 29. Era stata la sua prima camera, venticinque anni prima. L’aveva divisa per tre stagioni con Hugo Camino che ora se ne stava ad allenare in Messico. Per anni e anni quella fu la sua tana. Ci visse anche per un’estate intera quando litigò con Carla prima di partire con lei per l’Europa. La sua grande parabola nasceva e si chiudeva lì. Si guardava attorno e rivedeva gli spettri di presidenti, giornalisti, belle donne, compagni, tifosi. Tutti passati di lì per salutarlo, dirgli che per loro era un mito, “il più grande”.
Continuò a naufragare tra i suoi pensieri per un po’, all' improvviso girò la testa di scatto verso l’orologio. Mancavano dieci minuti. L’autobus parcheggiò davanti all' albergo, una pattuglia della polizia presidiava l’entrata e controllava che tutto fosse in ordine . Non si poteva mai sapere da quelle parti.
Era arrivato il suo attimo.
Aprì il cassetto del comodino e ne estrasse una pistola. Si mise di nuovo alla finestra. I poliziotti urlavano qualcosa a due giovani neri che avevano tentato di raggiungere l’entrata dell’albergo. Un agente provò ad inseguirli ma quelli erano giovani e scaltri mentre lui era grasso e zoppo. Ramon guardò fisso in lontananza. Si vedeva la Bombonera, ora. Avevano acceso l’impianto luci e lo stadio dominava il panorama. Furono istanti di silenzioso delirio. Al centro dell’inferno c’era lui. Nella testa ricordi, incubi e memorie di una vita intera.
La Bombonera, Buenos Aires.

Il gol al Brasile nella finale di Copa America del cinquantanove, l’Arsenal, l’arrivo al Real, il matrimonio con Carla, la nascita di Joseph e Anita, la prima Rolls Royce, il milione di dollari vinto a Las Vegas nel sessantaquattro, il campionato portoghese, il Colosseo, le cene a Saint Tropez con Rivera, la casa comprata alle Bahamas, i prestiti della madre, il cancro del padre, il rigore sbagliato col Gimnasia, i debiti con Cueva, le notti insonni, i farmaci, le esclusioni, la squalifica per aggressione, la cocaina a Cali, la stanza 29 del San Francisco.

Stava tutto lì dentro, eppure sentiva che niente gli apparteneva più.
Ora c’era Gasquez che in allenamento non lo salutava nemmeno. Il ritratto un tempo luminoso del suo volto su un muro di Plaza Solis si era quasi interamente scrostato. Rimanevano solo gli occhi di un uomo povero che soffriva più di tutti i poveri del Paese perché un tempo lui era stato Dio. Perché un tempo aveva avuto tutto. Prese la pistola e continuò a fissare lo stadio. Puntò la canna alla gola.

Le trentuno reti al River, i sei gol ai mondiali, la Dolce Vita, i conti in Svizzera, il Cointreau, il Fernet Branca, il Petrus, le violenze su Carla piangendo e vomitando, i due fratelli morti ammazzati, gli amici scomparsi, i tradimenti di Carla, la marijuana a Parigi, le interviste ubriaco, il silenzio dello spogliatoio, il gol di tacco all’Uruguay, gli amori in gioventù, il viaggio in macchina con Rafael per fare tutta la costa ovest degli Stati Uniti, Mariela, i tramonti di Roma.

L’urlo di un agente squarciò il silenzio.
“Barregan, no!”
Spostò lo sguardo e per un eterno istante i due si guardarono, si dissero tutto, si dissero, in fondo, che non c’era più tempo. Che non c’era più niente per cui soffrire.
Fu l’ultimo intenso momento di un uomo ucciso dalla gloria e dal tempo che corre, fu l’ultimo esaltante uno contro uno, l’ultimo tap-in liberatorio prima della grande notte.

Gian Maria Campedelli

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