lunedì 29 aprile 2013

IO, UMANO TROPPO UMANO: URLO D'AMORE PER JAVIER ZANETTI

di Gian Maria Campedelli (per seguire il blog su Facebook clicca qui)


Un movimento elegante e maestoso, incessante. Gambe forti come tronchi che percuotono l'erba, instancabilmente, un corpo fiero e mai domo, i lineamenti del viso: docili ma decisi. Chilometri e chilometri sfidati con un passo inumano, contro le clessidre dei critici e dei Signori del tempo.


Ho sempre odiato la retorica buonista di chi nel calcio vuole vederci per forza l'amore e la solidarietà e la condivisione ad ogni costo. Difendo e difenderò sempre la dignità della rivalità, accesa e sfrontata, carica di rispetto, certo, ma irriducibile. Ed è per questo motivo che il mio Javier Zanetti non è patrimonio del calcio intero, del mondo tutto, dei miliardi di tifosi che popolano questo pianeta. Javier Zanetti è, al di là dei cortesi sorrisi e dell'enorme cuore, l'incarnazione della fede di un solo popolo, quello Nerazzurro, che più di tutti ha bisogno di identità e di trascinatori che lo prendano per mano lungo le impervie strettoie della Storia.

1995: Zanetti (insieme a Rambert)
viene presentato da Facchetti  alla
Terrazza Martini. (foto: Wikipedia)

Niente e nessuno mai come lui. Orgoglioso senatore di una squadra protagonista, nel bene e nel male, del calcio italiano ed europeo degli ultimi (quasi) vent'anni, un infaticabile eroe dal viso pulito e limpido e dalla spietata forza, fisica e mentale: onorarlo ora, dopo ciò che è accaduto ieri a Palermo, è l'unico modo che conosco per illuminare una volta di più i contorni aurei della sua figura. Indelebile, inscalfibile, totalizzante.

Dacché ho memoria, Lui c'è. Mutano di anni in anno le casacche, gli sponsor, le mode, le capigliature (degli altri), le correnti musicali e letterarie, i governi, i programmi televisivi, le forme dei bikini sui litorali di tutto il mondo. E lui c'è. C'è nel buio e nella luce accecante, senza sbraitare o sgomitare troppo. Non ne ha bisogno, Javier: ovunque giochi, ovunque ci sia da soffrire o gioire, diventa esemplare difensore di quei colori che sono diventati la sua (e la mia) seconda pelle. Anno dopo anno, partita dopo partita, oltre le critiche di chi ha tentato in ogni modo di ridurre questa storia ad una favola da raccontare ai propri nipoti davanti ad un caminetto in montagna.

Se così fosse ci si perderebbe la parte più significativa,  lo spicchio essenziale di un'epopea che mescola i toni gloriosi e quelli tragici tipici dei poemi epici dell'antichità. Immutabile e imperterrito come un soldato che lotta una vita intera nel vento e nella burrasca mentre i generali si disperdono battuti dalle avversità, Zanetti affronta e vive da protagonista i punti più bassi degli ultimi vent'anni di Inter (quello odierno in primis) senza mai abbassare la testa e, al tempo stesso, non la alza mai troppo nemmeno quando diviene, da capitano dell'Inter, campione d'Europa e del Mondo.

6 maggio 1998: Zanetti segna il 2-0 che spiana la strada
all'Inter nella vittoria contro la Lazio in finale di Coppa Uefa
(foto: Raisport)
A fianco di lui passano campioni impomatati, fenomeni veri o presunti, avvenenti talenti che presto si riveleranno solo viziati viveur: scorrono via, vittime del denaro, della sfortuna e, soprattutto, di una incontestabile inferiorità. Zanetti è oltre. Va al di là. Senza mezze misure, sfonda le barriere dei cuori dei tifosi, anche di quelli più aspramente disfattisti, e vi si conficca, gonfiandoli d'amore e senso d'appartenenza.

L'identità, l'orgoglio d'esser parte di quel popolo, ancora una volta: niente universalizzazioni, niente beatificazioni. Sarebbe troppo semplice e ipocrita osannarlo ed incensarlo ora, fuori dal prato verde.

Zanetti parafulmine, condottiero della squadra citata fino allo sfinimento in barzellette e freddure per tutti gli anni Novanta e per metà del primo decennio degli anni Duemila, Zanetti idolo, splendente "Tractor" che traina la schiacciasassi nerazzurra che monopolizzerà il calcio tricolore (e non soltanto) dal 2006 al 2010. Ma domani?

22 maggio 2010: il Capitano dell'Inter in trionfo
dopo la vittoria della Champions League.
Guardare al passato è un esercizio doloroso, ora. Lo è persino ripensare alla notte del 22 maggio di tre anni fa, nonostante sia probabilmente il gradino più alto della historia nerazzurra: non è la contrapposizione con la desolante situazione odierna, non è il ricordo nostalgico di un innamorato che ora soffre perché il proprio amore è naufrago in mezzo ad un mare in tempesta e non c'è rotta, non c'è via da seguire, non c'è luce a dar speranza, non è questo a provocare dolore.

Zanetti in lacrime dopo l'eliminazione
dalla semifinale di Champions League
contro il Milan nel 2003.


E' la sua Presenza passata che si scontra con lo spettro dell'Assenza
futura a tormentare me e, sono certo, centinaia di migliaia di altri come il sottoscritto. E' l'angosciante prospettiva che tutto questo, com'era logico ma mai abbastanza digeribile, debba finire. Che il più valoroso e dignitoso idolo che io abbia mai avuto debba appendere le famigerate scarpe al chiodo. Quasi come se ci fossimo, con gli anni, tutti inconsciamente convinti che Javier potesse andare al di là anche delle umane sorti, dell'inarrestabile avanzata del tempo e dell'onnipresente rischio di perdere l'integrità fisica.

E invece no. "Umano troppo Umano" scriveva Nietzsche tra il 1878 e il 1879, e a sentirsi "troppo umano" oggi non è il Capitano, ma un innamorato ferito che irrazionalmente ha sempre accarezzato il sogno che il proprio eroe non potesse mai smettere quei panni divini che ha magistralmente indossato per ottocentoquarantacinque volte. Dal tallone d'Achille al tendine di Javier, da epica a epica, pregando il destino che stavolta l'epilogo sia diverso, gusto l'amaro sapore del ricordo e il rabbioso stridere di un'incrinatura che, su quell'imbattibile armatura, sembra oggi più che mai irreparabile. Eppure, nel tormentato sonno di questa notte, ho avuto l'impressione che la festa non finirà. Nemmeno stavolta.

Forza Capitano.




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