venerdì 28 dicembre 2012

I DUE CIGNI DI SWANSEA



“L'anatroccolo si lanciò disperato verso di loro gridando: - Ammazzatemi, non sono degno di voi!-
Improvvisamente si accorse del suo riflesso sull'acqua: che sorpresa! Che felicità! Non osava crederci: non era più un anatroccolo grigio… era diventato un cigno.” Così Andersen concludeva più di un secolo fa una fiaba che segnerà l’infanzia di milioni di bambini. Un finale intriso d’allegria, il gioioso compimento d’una lunga e travagliata vicenda che, per larghi tratti, appariva destinata ad essere caratterizzata da un’eterna sofferenza, da un’incorreggibile inferiorità.
A distanza di quasi due secoli la storia si ripete, questa volta non è ambientata nel rurale scenario descritto dal grande autore danese, bensì in uno stagno tutto particolare. Fatto di seggiolini, abitato da ventimila gallesi, orgogliosi d’essere i primi figli del dragone rosso a potersi gustare la Premier League. Il Liberty Stadium incarna esattamente il concetto di luogo affascinante e mistico, perfetto per questa fiaba dei giorni nostri.
I brutti anatroccoli però, nella nostra personalissima vicenda, sono due.
Daniel Anthony Graham (per tutti Danny) e Miguel Perez Cuesta o, più semplicemente, Michu, numeri  dieci e nove dello Swansea AFC.
Due giocatori completamente differenti, assimilati però da un passato nelle minors, anni lunghi, faticosi, costellati da delusioni ed infortuni.
La prima punta di Gateshead incarna alla perfezione l’ideale di rude uomo del nordest inglese. Tratti somatici e fisici che tanto sanno di tipico lad da pub. Probabilmente in pochi ci saremmo stupiti nel vederlo ripreso a braccia aperte, gesticolante ed urlante “wanker” ai danni di qualche cockney giunto malauguratamente nel suo territorio. Prototipo d’attore di “The Football Factory”, Danny non è mai stato un talento naturale. È stato ed è un uomo. Uomo nell’affrontare gli anni bui al Boro, il viaggio a Darlington, l’unico gol in due anni tra Rams, Leeds e Blackpool. Uomo nell’affrontare il difficile inizio a Carlisle causa grave infortunio. Uomo nell’aver tenuto la testa alta, nell’aver mangiato per anni il fango di campi non esattamente nobili (molte volte anche dalla panchina). Uomo nell’aver sfruttato l’unico possibile punto di svolta della sua carriera. In quattro anni tra Carlisle e Watford segna più di sessanta gol. Scoppia, improvvisamente, inaspettatamente. Ma lui non cambia, dà sempre l’idea d’essere conscio di quanto gli sia costato ogni singolo minuto giocato, ogni singolo gol. Sorride, umilmente. Poi arriva la grande opportunità nella città della Three Cliff Bay. Qui, il mancato pescatore del fiume Tyne, capisce d’essersi definitivamente realizzato.
Miguel Cuesta non è il classico numero nove, è uno di quei giocatori dalle caratteristiche indefinibili. In lui non possiamo che osservare un’alternanza di movimenti, di giocate, di linee tratteggiate con il suo mancino, paragonabile solamente alla morfologia del suo amato territorio asturiano. Al contrario del suo attuale compagno d’attacco, Michu, sa dentro di se di non aver meritato quegli anni in tercera division nel Real Oviedo. Già lo immagino, pugni stretti, seduto nello spogliatoio, incapace di spiegarsi perché tanto talento non riuscisse ad essere compreso da nessuno. Ma è questione di tempo. Quel qualcuno lo trova pochi anni dopo, a Vigo. Da qui inizia una scalata esaltante ben dipinta dai venticinque gol in maglia celeste e dagli ancora più impressionanti quindici in maglia vallecas. Sembra l’apice della sua carriera, eppure Michu sa di essere più di questo. Sbarca anche lui al Liberty Stadium. Il suo impatto con la Premier è incredibile. Tredici gol in diciotto partite. La convocazione in nazionale.
Il finale di questa fiaba calcistica, di cui Andersen andrebbe molto fiero, ce lo scrivono loro, i due protagonisti, con le rispettive esultanze. Dopo ogni gol in quella Premier tanto sognata, Danny Graham, fa impazzire gli swans con una sana pernacchia, diretta a Madre Natura ed al mancato talento, agli allenatori che lo relegavano in panchina in Championship, agl’infortuni. Si batte forte il petto su quello stemma che ormai lo rappresenta. Michu urla invece, contro il mondo, contro chi non credeva in lui, gira vorticosamente la mano di fianco all’orecchio quasi a voler dire “si, ero pazzo a crederci”, poi spiega le ali.

Nell’anno del centenario dei jacks, quasi a suggellare, a rendere ancora più incantato quest’intreccio magico, si abbracciano i nostri due cigni, sorridono guardandosi alle spalle, sono quello che hanno sempre sognato di essere. Possono volare.

Gianmarco Pacione 

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